Il pensiero debole del nostro mondo a portata di click

Massimo Recalcati  su Repubblica 31 luglio 2016

Da bambino restavo per ore a guardare nelle lunghe settimane d’estate il pollaio di mio nonno. Le galline beccavano senza sosta il loro mangime sparso a terra. Erano i tempi immortalati da Paolo Conte in Azzurro dove anche all’oratorio non restava «nemmeno un prete per chiacchierar ». Ma erano anche quelli di Cochi e Renato che spiegavano in una loro celebre canzone che «la gallina non è un animale intelligente». Il mio sguardo di bambino perlustrava il comportamento delle galline per scoprire le ragioni di questa diagnosi impietosa. Improvvisamente l’illuminazione: sono stupide perché non smettono di mangiare, perché dipendono dalla presenza costante dell’oggetto che deve essere sempre a portata di bocca. Era forse questo il segreto della loro intelligenza ridotta? Le galline non sono animali intelligenti perché non sanno fare esperienza dell’assenza dell’oggetto, del suo ritrarsi altrove, non sanno guardare oltre la semplice presenza? Non a caso per Freud è proprio questo passaggio dalla presenza all’assenza all’origine dell’attività del pensiero; solo se il bambino fa esperienza dell’assenza dell’oggetto (il seno è il suo prototipo) può accedere all’astrazione simbolica del pensiero.

Ma non è forse questa la condizione imposta dall’esistenza del linguaggio? Non è forse l’evento della parola che ci insegna che qualcosa può essere evocato grazie ad un segno senza che sia necessaria la sua presenza? Non nasce da qui — da questa sostituzione della presenza con l’assenza — , la straordinaria magia della scrittura e della lettura: fare esistere mondi, renderli presenti nella loro evocazione simbolica, sullo sfondo della loro assenza? Lacan lo teorizzava radicalmente in modo hegeliano: il linguaggio uccide la Cosa. La parola “elefante” esiste e rinvia al suo significato senza che sia necessaria la presenza reale dell’elefante.

Il nostro tempo ha reso il pensiero un tabù? Quello che più conta oggi non è tanto il pensare quanto l’agire. Ma quando l’azione si stacca dal pensiero tende ad assumere la forma di un passaggio all’atto, ovvero di una scarica all’esterno di quelle tensioni interne che la vita non riesce a tollerare. Non è forse questo un modello che aiuta a comprendere la spirale di violenza che ci circonda? Anziché elaborare simbolicamente i conflitti che attraversano la nostra vita individuale e collettiva, meglio evacuarli direttamente nella realtà attraverso passaggi all’atto cruenti. La via breve della violenza vorrebbe sostituire la via lunga del pensiero. Ma perché il pensiero, diversamente dal passaggio all’atto, esige tempo? Esso sorge circondando l’assenza dell’oggetto più che la sua presenza.

Secondo Bion il bambino accede al pensiero a partire dalla frustrazione legata alla assenza del seno. Di fronte a questo vuoto si aprono due possibilità: una è quella di allucinare l’oggetto assente rendendolo presente, l’altra è quella di sperimentare l’assenza dell’oggetto rendendola generativa di pensiero. Ma c’è, sempre secondo Bion, un’altra condizione essenziale affinché l’esperienza del pensiero si renda possibile: il pensiero non si genera da sé, ma si nutre dei pensieri della madre, di come, innanzitutto, la madre “pensa” il suo bambino. Il che significa che la possibilità di rispondere all’assenza dell’oggetto non dipende da un qualche innatismo, ma dalla presenza dell’Altro che coi suoi pensieri fertilizza il mio stesso pensiero. È quella che Bion definisce reverie materna: il pensiero della madre consente la germinazione del pensiero del figlio.

Il pensiero sta diventando oggi davvero un tabù? Viviamo nel tempo dove il passaggio dalla presenza all’assenza che custodisce l’origine del pensiero sembra ostruito. La dipendenza dalla presenza degli oggetti — soprattutto di quelli tecnologici — rafforza l’esigenza della presenza perpetua a scapito di quella dell’assenza. L’accorciamento straordinario delle distanze se per un verso è una grande opportunità per la nostra vita sociale, per un altro contribuisce a evitare l’esperienza necessaria alla parola e al pensiero dell’assenza. Tutto è permanentemente connesso, accessibile, potenzialmente sempre presente. Ma se tutto è sempre presente, accessibile, se tutto ciò che esiste è solo tutto ciò che è presente, allora non viene lasciato alcun spazio alla possibilità della poesia, dell’evocazione dell’assenza, dell’esperienza della distanza che non si colma. In una parola al pensiero. È una evidenza psicologica sempre più diffusa: gli esseri umani fanno sempre più fatica a rinunciare alla presenza dell’oggetto.

In un convegno di qualche anno fa discussi animatamente con un celebre psicologo nordamericano che esaltava l’ipotesi, a suo giudizio niente affatto remota, che il nostro stesso corpo fosse destinato nei prossimi decenni a “riempirsi” di protesi tecnologiche in grado di assicurare una connessione perpetua al mondo virtuale. Sono quegli oggetti che Lacan non a caso descriveva già alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso come delle “ventose” destinate a modificare l’assetto del nostro stesso corpo. Si tratta di una nuova mutazione antropologica che radicalizza le analisi di Pasolini intorno all’incidenza degli oggetti di consumo sulla vita umana. Non solo l’oggetto finisce per essere sempre più essenziale alla vita ma trasforma la vita stessa in una sua protesi rovesciata

 

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