Il Partito Democratico senza democrazia

Walter Tocci Blog martedì 14 febbraio 2017

Alternativi a noi stessi. Un congresso in tre atti per il PD

Ieri si è tenuta la Direzione del PD. Non sono rimasto convinto delle decisioni assunte e ho votato contro la risoluzione finale. Di seguito illustro le critiche e le proposte.

A Roma alcuni cominciano a rimpiangere Marino. Certo non gli mancavano i difetti, ma era meglio del disastro attuale. Eppure il PD buttò giù il sindaco scelto dagli elettori ricorrendo alla miseria politica del notaio, per correre verso la disfatta elettorale. Non ripetiamo l’errore con il governo nazionale; le conseguenze sarebbero terribili per l’Italia e per l’Europa. Se dopo Letta e Marino dovesse cadere anche Gentiloni ci verrebbe la nomea di “sfascia-governi”, dopo aver predicato la stabilità come supremo principio costituzionale. Sorgerebbe il dubbio che Renzi voglia la stabilità del governo solo se ne è a capo.

A mio avviso questa legislatura doveva finire quando la Corte sentenziò che il Parlamento era stato eletto con una legge incostituzionale. Si decise allora di andare avanti promettendo faville. Abbiamo voluto la bicicletta, adesso dobbiamo pedalare fino al traguardo del 2018 e cercare di vincere la gara. Non dovrebbero esserci ambiguità sulla scadenza naturale della legislatura. Ancora peggio sarebbe arrivarci per inerzia senza utilizzare il governo come leva per riconquistare il consenso perduto. Questa Direzione doveva servire a elaborare un Programma per la Vittoria. Dovremmo aiutare Gentiloni a realizzare tre-quattro obiettivi efficaci, convincenti, evocativi, esaltando le cose buone già realizzate, correggendo i palesi errori e suscitando negli elettori la fiducia per continuare nella prossima legislatura.

Sull’immigrazione ci giochiamo tutto. È stato un nostro sindaco a dimostrare nei fatti che l’accoglienza fa bene al Paese, recuperando il borgo di Riace con il lavoro dei nuovi immigrati e dei giovani italiani. Se ne è parlato in tutto il mondo, ma noi invece di farne il modello nazionale abbiamo preferito affidare la pratica ai prefetti. Solo con l’energia dei nuovi venuti potremo riportare la vita nei borghi abbandonati, nei paesaggi che custodiscono il carattere italiano. Se diventiamo i più bravi in accoglienza avremo la forza per convincere i paesi europei ad assumersi le proprie responsabilità.

Garantire un reddito di inserimento sociale a tutti i giovani che ne hanno bisogno è un obiettivo possibile in un anno. Si tratta di generalizzare la sperimentazione già avviata dal precedente governo. Le risorse si trovano se si vuole, lo ha dimostrato meritoriamente Renzi, ma poi si è illuso come i suoi predecessori che bastassero gli incentivi alle imprese per creare lavoro. Occorre concentrare le risorse sulla lotta alla povertà e sulla creazione di lavoro mediante investimenti pubblici e privati, ma che siano certi e fattibili nel breve periodo. E sarebbe vincente un segnale forte contro l’abuso dei voucher. Occorre tracciare una linea di demarcazione tra la flessibilità produttiva e la flessibilità servile. Diamo l’esempio nella pubblica amministrazione rimuovendo l’illegalità di Stato che utilizza il precariato per svolgere funzioni permanenti e irrinunciabili.

Ottima l’anticipazione del congresso, anzi a mio avviso abbiamo già perso due mesi. Però occorre un congresso diverso da quelli precedenti, che hanno sempre osannato un leader senza costruire un partito. Veltroni, Bersani e Renzi hanno suscitato differenti aspettative, ma nessuno è riuscito a realizzarle perché tutti erano sprovvisti dello strumento. Fino al punto che oggi il PD esiste solo come simbolo, ma senza una presenza effettiva in diverse grandi città italiane come Roma, Napoli, Palermo ecc.

Il primo atto allora è cestinare il demenziale statuto che riduce il congresso a una conta sulle persone. Occorrono nuove regole per un congresso ragionato da milioni di persone, certo anche per scegliere una leadership, che però non si illuda di fare tutto da sola, ma sia in grado di costruire una classe dirigente e di mobilitare tutte le energie dei democratici, i militanti, gli elettori, le idee, i progetti, le esperienze sociali. È anche l’occasione per un bilancio sincero dei primi dieci anni di vita del PD. Volevamo il partito degli elettori e ci ritroviamo il partito degli eletti. Volevamo una moderna forza popolare e siamo stati spiantati nelle periferie italiane. Volevamo ringiovanire la politica e abbiamo ottenuto la più bassa percentuale di voto giovanile. Se le promesse fondative non sono state realizzate non è un insuccesso solo dei dirigenti di oggi, ma anche di quelli di ieri. Già questo riconoscimento dovrebbe sciogliere le contrapposizioni, e liberare il campo da tutte le attuali candidature, per aprire una discussione preliminare sul passato e sul futuro del PD, prima di presentare le mozioni.

Non si può andare al congresso senza ritrovare la capacità di parlarsi. Il segretario sostiene di aver accolto le richieste della minoranza, ma questa le ha modificate. Forse esagera, però è vero che il confronto maggioranza-minoranza sembra un discorso tra sordi. La scomunica mediatica dei caminetti porta all’eccesso opposto di negare qualsiasi momento di ricerca comune delle soluzioni. La retorica dello streaming costringe gli attori a recitare copioni prefissati e produce l’incomunicabilità dei gruppi dirigenti, come non accade in nessun altro grande partito europeo.

Il secondo atto del congresso consiste nel cogliere il senso del referendum. Il popolo ha detto alla classe politica cura te stessa prima di toccare la Costituzione. Oggi una grande riforma istituzionale è nelle nostre mani, fare del PD una moderna forza popolare di oltre il 40% dei consensi. Come, dove e con chi realizzarla è l’argomento del congresso. Era anche l’intuizione iniziale di Renzi. Spesso indovina il tema, poi è carente nello svolgimento. L’obiettivo non si coglie con azzardi personali, ma con un’azione duratura, profonda e inclusiva. Non è più tempo di aprire conflitti inutili solo per dare l’illusione del cambiamento. Non è più tempo di minacciare scissioni, separazioni e avventure minoritarie. Servono grandi partiti per governare la complessità del Paese. È tempo di uscire dall’autarchia, non bastiamo a noi stessi, abbiamo bisogno degli altri, è urgente ritrovare l’amicizia con il vasto mondo politico, sociale e culturale del centrosinistra italiano. Dobbiamo conquistare non solo i voti, ma anche la stima degli elettori. La stima nasce quando la politica dimostra la sua autenticità nel dedicarsi a ciò che è permanente, profondo e creativo e non si accontenta di ciò che è superficiale, temporaneo e imitativo delle mode passeggere.

Il terzo atto consiste nel rielaborare le ragioni e compiti del PD in un mondo in subbuglio. La destra anglosassone chiude oggi la globalizzazione dopo averla aperta ieri con Reagan e Thatcher. La risposta può venire solo da un’alleanza neoatlantica e democratica tra il meglio del socialismo europeo e dell’eredità di Obama. L’Europa ha smarrito il ruolo internazionale quando ha voltato le spalle al Mediterraneo, perché proprio nell’antico mare si giocano le principali questioni geopolitiche di questo secolo: pace-guerra, migrazioni e accoglienza, religione e politica, ambiente ed energia. Il nuovo capitalismo sembra poter fare a meno degli ideali democratici, dalla Cina a Trump.

Il partito democratico è implicato in tutte queste sfide dell’epoca. È la forza più grande nel partito socialista europeo, ben piantato nel Mediterraneo e sempre attento alle novità dei democratici americani. Il nome contiene il suo destino, come ci ha ricordato un brillante passaggio della relazione del segretario. Aldo Moro propose al suo partito di farsi alternativa a se stesso di fronte ai grandi mutamenti della società italiana degli anni sessanta. Noi ci troviamo di fronte mutamenti radicali del mondo. Se non ci fosse il PD, oggi bisognerebbe inventarlo. Se non ha funzionato al meglio bisogna reinventarlo. Al congresso si vedrà se sapremo essere alternativi a noi stessi.

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