Gli effetti dirompenti nella scuola di: chiamata diretta, bonus premiale e alternanza scuola-lavoro

di Anna Angelucci 20 giugno 2017 Micromega

Sinistra, serve una battaglia di civiltà per rifondare la scuola

Siamo alla vigilia della nascita di un nuovo soggetto politico. Di sinistra.Tra le drammatiche sfide che lo aspettano – lavoro, giustizia, immigrazione, Europa – c’è anche quella sull’istruzione. Dopo vent’anni di riforme sbagliate, rifondare la scuola pubblica statale sui principi costituzionali deve essere un obiettivo prioritario.

Partiamo da un dato di realtà: l’attuazione della legge 107, per tutti la “buona scuola”, violentemente imposta al paese da Matteo Renzi e dal Partito Democratico nel 2015, si sta consumando nell’inerzia di una rassegnata e passiva accettazione da parte di insegnanti e studenti [1], contrari soprattutto ai tre aspetti più cogenti del provvedimento – chiamata diretta, bonus premiale e alternanza scuola-lavoro, lesivi di norme e principi costituzionali – ma incapaci di elaborare un’efficace strategia di mobilitazione, opposizione e contrasto.

Al netto di reazioni di protesta a macchia di leopardo – che hanno visto alcune scuole devolvere il bonus ad attività filantropiche o utilizzarlo come parte del fondo d’istituto, oppure rifiutarsi di stilare una lista di requisiti per selezionare i docenti più ‘adatti’ – una reazione politica compatta, forte, necessariamente unitaria e condivisa a livello nazionale, alla legge che sta distruggendo il sistema scolastico italiano indubbiamente non c’è.

Perché? La risposta è articolata ma semplice: il corpo docente è un ceto prevalentemente impiegatizio, con scarsa formazione politico-sindacale e con spiccata attitudine ad un’esecutività acritica, vuoi per indole, vuoi per obbedienza istituzionale; i media mainstream hanno accompagnato l’azione muscolare del governo con una campagna di screditamento della categoria e in generale della scuola pubblica senza precedenti nella storia repubblicana; accademici, intellettuali, scienziati e personalità di chiara fama, forse sottovalutandone la portata sul sistema d’istruzione, non hanno proferito alcuna parola seriamente critica nel merito e nel metodo con cui la legge 107 è stata imposta al paese; la Cgil e i sindacati confederali hanno inscenato un’opposizione di facciata – sciopero del 5 maggio 2015 compreso – mentre nel retrobottega si accordavano col Partito Democratico su valutazione, reclutamento, aggiornamento, sostegno, mobilità: la nomina di Valeria Fedeli a ministro dell’istruzione, colei che alle ‘sudate carte’ scolastiche e universitarie ha preferito i nerboruti tavoli delle trattative sindacali, è la giusta ricompensa alla Cgil, il sindacato più menzognero e traditore dei diritti dei docenti e degli studenti che sarebbe mai stato possibile immaginare. Un sindacato che, rinnegando i suoi valori fondativi, ha parlato negli ultimi anni con lingua biforcuta, proprio come quel Ferrer di manzoniana memoria che (e ci dispiace tanto che la nostra ministra non abbia avuto la possibilità di approfondirlo adeguatamente), facendosi largo tra la folla affamata, invoca in italiano il carcere per il vicario, mentre parlando in spagnolo gli garantisce protezione e salvezza: “Adelante Pedro”.

Ed infine, last but not least, i sindacati di base, protagonisti in passato di grandi battaglie vittoriose per il rinnovo dei contratti ma ormai indeboliti e marginalizzati anche in virtù di leggi sindacali antidemocratiche, non sono riusciti oggi a trascinare i lavoratori della scuola in una battaglia di civiltà.

Perché questo avrebbe dovuto essere: una battaglia di civiltà, e non una difesa corporativa di interessi di categoria. Una battaglia di civiltà nell’interesse dell’intero paese, contro una legge che sta distruggendo la scuola della Costituzione e sta mettendo una pesante ipoteca sul futuro dell’Italia. Una battaglia di civiltà per riaffermare l’originario mandato istituzionale della scuola pubblica: non un’azienda di servizi on demand, diversa da quartiere a quartiere, da città a città, da paese a paese, da Nord e Sud, da centro e periferia, bensì strumento costituzionalmente vocato al riallineamento delle differenze sociali, economiche e culturali di partenza, individuali e locali. La scuola come strumento di uguaglianza e pari opportunità. La scuola come laboratorio di cittadinanza democratica. La scuola come viatico di progresso e di crescita, personale e collettiva. La scuola come esperienza di cultura viva e disinteressata ed esercizio di libertà consapevole e responsabile. Per docenti e studenti.

Ma dire questo non è sufficiente: agli aspetti spiccatamente politico-sindacali che avrebbero dovuto alimentare ben più tenacemente l’opposizione alla 107, non si è affiancato, a mio avviso, un rigoroso processo di riflessione e di analisi sul percorso che, a partire dalla prima legge sull’autonomia scolastica (59/1997), ha determinato non solo una profonda modificazione dell’istituzione scolastica, della sua organizzazione e della sua governance, ma anche del ruolo e della funzione del docente e, soprattutto, delle modalità e della qualità dell’attività didattica, marginalizzando progressivamente la centralità del discorso culturale a vantaggio di particolarismi territoriali meritevoli di essere eradicati piuttosto che alimentati.

Un processo di riflessione e di analisi critica, destruens e costruens, promosso dal Parlamento, che coinvolgesse, e non opponesse, legislatore e mondo della scuola. Prima che la 107 sancisse il definitivo passaggio della scuola pubblica statale a scuola privata.

A distanza di quasi vent’anni anni la legge voluta da Berlinguer aveva bisogno di un ‘tagliando’ che ne analizzasse accuratamente gli esiti sotto il profilo culturale e didattico in una prospettiva diacronica e diatopica, anche in relazione alla pletora di interventi legislativi che si sono nel frattempo susseguiti e stratificati: fra gli altri, autonomia e modifica del Titolo V della Costituzione (che ha regionalizzato l’istruzione, riducendo le funzioni dello Stato all’indicazione delle sole norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni); autonomia e riforma Gelmini (che ha drasticamente modificato la fisionomia culturale della scuola di ogni ordine e grado); autonomia e Sistema Nazionale di Valutazione (che ha imposto burocratiche modalità di controllo ex post opache, inaffidabili e destabilizzanti).

Questa analisi è mancata e, al di là delle considerazioni politiche che spiegano solo parzialmente la volontà di imposizione muscolare al Paese di una legge che esaspera un principio, quello dell’autonomia scolastica, senza averne prima minimamente analizzato gli effetti preesistenti (e davvero al ragionamento politico occorre, in questo caso, affiancare la diagnosi psichiatrica), il risultato è oggi – a due anni dall’implementazione della 107 – la condizione di assoluta alienazione, diffidenza, scoraggiamento e abbrutimento di chi vive, lavora e studia nel mondo della scuola. E’ in questa condizione bipolare, depressiva e schizoide, che dirigenti e organi collegiali, docenti e studenti stanno sperimentando, oltretutto senza finanziamenti (sic), le nuove, innumerevoli possibilità di organizzazione autonoma offerte dalla legge, in un’ipotesi di scuola che è ormai diventata un progettificio dei poveri, un contenitore di tutto e di niente, un via vai di privati ed esterni che, legittimati dall’alternanza scuola-lavoro, ci portano via gli alunni dalle aule, li intruppano nelle aule conferenze e gli suggeriscono di diventare prosumers dei loro prodotti millantando inverosimili sbocchi professionali oppure, con la scusa dell’esercizio delle competenze e del saper fare, li fanno lavorare gratis al mattino come camerieri, cuochi, agricoltori, tecnici, impiegati; li strappano dai banchi di scuola e li mettono su un trattore o a far fotocopie o a servire al coffee break dei convegni o a strappare biglietti o a far volantinaggio in questa o quella manifestazione, ledendo quotidianamente e sistematicamente il loro diritto allo studio.

200 ore nei licei e 400 ore negli istituti tecnici e professionali: sono un’infinità di ore sottratte all’italiano, alla storia, alla matematica, alle scienze, alle discipline d’indirizzo di ogni scuola. Ore sottratte ai ragazzi, ore di lettura e scrittura che non recupereranno mai più. Mentre, nel frattempo, a scuola, la riflessione sui fondamentali della pedagogia e della didattica appare ormai residuale rispetto alle esigenze della governance. Che ha fatto prigionieri dirigenti, docenti, studenti, fagocitando tutti gli spazi deliberativi degli organi collegiali e cancellando qualunque tentativo di riflessione culturale e critica.

A soli due anni dalla sua applicazione, i devastanti effetti socio-culturali della 107 sono sotto gli occhi di tutti. Gli alunni non studiano più: sbattuti per decine e decine di ore l’anno tra archivi, fondazioni, aziende, uffici, agriturismi, manifestazioni, laboratori e campi coltivati, perdono tempo in squalificati lavoretti malsicuri e non pagati o scimmiottando attività professionali che richiedono ben altri tempi di istruzione e formazione professionale di alto profilo. Fece scalpore la notizia della convenzione tra Miur e Mc Donald’s per imparare a friggere patatine ma fa ancora più scalpore il recente impegno del Ministero di far svolgere l’esperienza di alternanza scuola-lavoro nei corridoi di viale Trastevere: cosa faranno lì gli studenti? Si improvviseranno attempati burocrati o improbabili sottosegretari o ministri senza portofoglio e soprattutto senza laurea?

Intanto, a scuola, i docenti sono paralizzati sotto il fuoco incrociato di Ptof, Rav, Pei, Snv (non è uno scherzo, sono gli acronimi degli obblighi scolastici da ottemperare), e non osano chiedere un trasferimento per timore di non essere considerati ‘adatti’ (non è un’iperbole, che gli insegnanti siano ‘adatti’ alla squadra che si vuole formare in ogni scuola lo prevede la legge) e dunque di finire vaganti in un ‘ambito territoriale’ da cui solo un provvidenziale ripescaggio dell’Usr (non è fantascienza, è il nome del competente ufficio scolastico regionale) li potrebbe salvare. E, contemporaneamente, privati di ogni libera scelta, sono vincolati a forme di aggiornamento professionale che inneggiano all’utilizzo salvifico dello strumento informatico a detrimento dei contenuti disciplinari, in nome delle nuove finalità dell’istruzione che marginalizzano i saperi e impongono un asfissiante sistema di controllo burocratico [2] Mentre i presidi, travolti da un potere e una responsabilità decisionale che hanno implorato per anni e che adesso non riescono a gestire perché è – oggettivamente – una mostruosità ed è – oggettivamente – in conflitto con il senso più profondo e più vero della scuola democratica disegnata dalla nostra Costituzione, riescono solo ad inscenare un bel sit in a Montecitorio per pietire un aumento di stipendio.

Dunque, che scuola è la “buona scuola”? Un grave errore, da qualunque parte la si guardi. Un fallimento per tutti, studenti, docenti, genitori, presidi, politici, cittadini, per l’intero paese. Il frutto marcio dell’ostinazione di un partito, il Partito Democratico, che spinge la scuola ormai da vent’anni sulla strada sbagliata, sordo e cieco a qualunque ragionamento critico, culturale e politico, anche a costo di presentare un conto insopportabile al nostro paese. Che sulla scuola, sulla pessima “buona scuola” si sta giocando il futuro.

Siamo alla vigilia della nascita di un nuovo soggetto politico. Di sinistra. Tra le sfide che lo aspettano su lavoro, giustizia, immigrazione, Europa – nella stesura del programma e nella condivisione di un progetto che escluda chiunque abbia responsabilità politiche nella devastazione del nostro paese – c’è dunque anche l’emergenza istruzione. E’ drammaticamente urgente. Dopo vent’anni di riforme sbagliate, rifondare la scuola pubblica statale sui principi costituzionali deve essere un obiettivo prioritario. Una battaglia di civiltà.

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