di Carlo Scognamiglio 22 giugno 2017 MicroMega
Tra don Milani e la “buona scuola”
Il giornalista sportivo Andrea Schiavon ha tentato un esperimento curioso: far rivivere nelle aule scolastiche la Lettera a una professoressa, attraversando l’Italia con l’aspirazione di riproporre ai nostri studenti la figura di don Milani, il suo stile, le sue convinzioni e la sua idea di educazione.
Non si discute l’indubbio interesse dell’esperienza, che mediante un ragionamento intorno al carattere innovativo della scuola di Barbiana, contribuisce a sottolineare questioni ancora aperte. Il risultato è un libricino stimolante e ben scritto (A. Schiavon, Don Milani. Parole per timidi e disobbedienti, Add editore, 2017).
La figura di don Milani e la sua prassi pedagogica costituiscono insieme un grumo di complessità e un tumulto di problemi. Nei suoi scritti e nelle sue scelte, la capacità di mettere a fuoco le criticità della nostra società si accompagna a volte a giudizi trancianti e forse non sempre meditati, che esigono approfondimento per non rischiare una banalizzazione.
Uno dei punti fondanti della Lettera a una professoressa è la critica del nozionismo, il rifiuto di una scuola distante dalla “vita” degli individui reali, in particolare dei contadini e degli operai. C’è in don Milani un istintivo senso di repulsione per la cultura elitaria e per un’idea di scuola raccolta negli schemi dell’insegnamento classico. Tuttavia, vi sono elementi che suscitano alcune riflessioni in merito al contesto dal quale emergono certe posizioni di rottura. Chi è don Lorenzo Milani?
Schiavon, nelle prime pagine del libro, ne ricostruisce sommariamente l’estrazione: appartenente all’alta borghesia toscana, Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti era nipote di Domenico Comparetti, filologo e senatore del Regno, figlio di Alice Weiss, che a Trieste tentava di irrobustire il proprio inglese grazie all’aiuto dell’amico James Joyce. Da ragazzo Lorenzo ambiva ad apprendere l’arte pittorica, e fu introdotto a bottega presso il pittore Hans-Joachim Staude, amico intimo di Maria José, moglie del futuro re d’Italia, e padre di quella che invece diverrà la moglie di Tiziano Terzani.
Insomma un contesto di vita non semplicemente colto e ricco. Don Milani proviene in senso forte dalla classe dirigente, da quel gruppo ristretto di individui notevoli – per posizione o reddito – e che in una nazione come l’Italia si conoscono tutti, perché formano una cerchia ristretta e capace di riprodursi. Certo don Milani è di tutt’altra pasta, e decide di porsi su un cammino difficile. Tuttavia, non si riflette mai abbastanza su come le risposte “risolutive” sul destino di miglioramento delle classi disagiate attraverso nuovi processi formativi, vengano spesso elaborate da soggetti completamente estranei a quel disagio, e che hanno ricevuto una formazione classica. E anziché connettere il perpetrarsi di quel disagio con l’esclusione dalla stessa storia educativa, ne predicano l’eliminazione o la sostituzione. In altri termini: è possibile giungere a elaborare una critica della formazione tradizionale senza provenire da essa? Si può possedere una capacità critica così profonda, senza essersi misurati con la cultura classica?
La questione ha a che fare con la nostra esperienza didattica ordinaria. Nella nuova scuola, quella che con la legge 107 insegue maldestramente e in modo un po’ acritico alcuni modelli internazionali, si tenta di liquidare la struttura tradizionale della nostra concezione didattica, con qualcosa che meglio aderisca alla “vita reale” (come se poi lo studio dell’Olocausto o dei terremoti non abbia nulla a che vedere con il reale). Addirittura nelle proposte odierne si scimmiotta e tradisce il senso del discorso di don Milani.
Formatori, ispettori ministeriali e docenti “innovatori” spendono molte delle proprie energie invocando un ribaltamento concreto del modello di scuola e di didattica, dimenticando l’altezza culturale da cui elaborano la propria critica, e come essa è stata guadagnata. Siamo sicuri che sostituendo ad essa un sistema di prassi il soggetto acquisisca eguale o superiore capacità critica e autocritica? O siamo forse vittime di un conformismo del cambiamento radicale? Come mai non riusciamo mai a entrare nell’ottica di un adattamento metodologico che assesti la tradizione, e ci lasciamo trascinare così facilmente da idee apparentemente rivoluzionarie? Ci siamo mai fermati a domandare dove conduce questo cambiamento? Che tipo di società disegna?
Nel caso di don Milani il discorso è più profondo, ovviamente, e Schiavon lo pone bene in evidenza. La società classista, accompagnata a un autoritarismo scolastico di cui oggi non esiste più neanche lontanamente l’ombra illanguidita, riempiva di senso la scelta alternativa di una formazione libera e combattiva. Però i principi di quella didattica andrebbero ripresi e ripensati, fuori della loro contestualizzazione storica. Perché non solo è cambiata la scuola, ma l’evoluzione dell’economia capitalistica ha disgregato residui relazionali della società novecentesca.
Quando Schiavon propone ai ragazzi dei nostri licei un esercizio simile alla scrittura di una lettera a una professoressa, ottiene osservazioni che spesso capita di cogliere nelle nostre scuole: “nomi, date, teoremi che fuggono dalla nostra memoria non appena abbiamo svuotato tutto nell’interrogazione o nei compiti in classe […] forse la scuola pretende troppo e noi non abbiamo abbastanza tempo […] è proprio necessario far studiare agli alunni tutto il “malloppo”?” (pp. 69-70).
I ragazzi interrogati da Schiavon, insieme a quelli di don Milani e molti pedagogisti contemporanei, evocano la necessità di formare “teste pensanti”, e non “teste piene”. Anche questa è una bella considerazione. Ma le teste sono pensanti per natura, non è che si possa educare a fare qualcosa che è connaturato all’individuo. Semmai è l’esposizione a stimoli e contenuti complessi, differenti, strutturati e pianificati che dischiude nuovi orizzonti all’individuo, rispetto a quelli che ha di fronte ai suoi occhi tutti i giorni, e lo conduce a un pensiero più maturo e consapevole.
Si deve ben capire che la trasmissione del patrimonio storico, letterario, mitico, simbolico e scientifico non è finalizzato alla reiterazione meccanica e sadica di arcaiche convinzioni. Ma Ariosto, Platone ed Einstein possono suggerire all’individuo possibilità, azioni, orizzonti e una consapevolezza di sé, che la mera lettura del giornale non può offrire. Ed è questo il vero punto debole della scuola di Barbiana, di cui si esalta la capacità di aderire alla vita reale, con quegli avventurosi viaggi all’estero cui i ragazzi erano destinati, per imparare lingue straniere praticate quanto basta per farsi capire, e al tempo stesso ridicolizzare lo studio delle eccezioni linguistiche nella grammatica francese. Ma è veramente un male che la scuola si allontani per molti aspetti dalla vita reale? E cosa è, in fondo, il reale?
Antonio Gramsci, ad esempio, insisteva affinché i figli degli operai si impegnassero il doppio degli altri studenti, anche nello studio del latino, e Lenin, tanto per ricordarlo in questo centenario della rivoluzione d’ottobre, ribadiva che nessun proletario può definirsi realmente marxista o comunista senza una profonda appropriazione dei risultati della cultura borghese.
Questo per ricordare che certamente è funzionale alla didattica costruire un lavoro su competenze già praticate o generalizzabili a più contesti di vita, ma non è sano proporre – come sta accadendo – una contrapposizione tra “saperi inerti” e “saper fare”. La “buona scuola”, attraverso l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro nei licei e altre misure analoghe, sembrerebbe far leva proprio sulla contrapposizione tra scuola e ambiente dell’esistenza concreta. Si fugge la differenza. Si cerca una continuità.
Ma siamo certi che la rottura generalizzata con la didattica tradizionale non nasconda ulteriori e più forti elementi nella selezione di classe? Nella scuola di don Milani – ci ricorda Schiavon – non c’erano le vacanze estive. Scuola aperta 12 mesi su 12. Si studiava di continuo, sebbene in modo originale.
Oggi un anno scolastico di liceo si svolge potenzialmente nell’arco di circa 1000 ore. Se si considera che si spendono in un anno del triennio circa 70 ore per l’alternanza scuola-lavoro, 40 se ne perdono le prime settimane e durante l’anno per assenze di docenti non adeguatamente coperte dall’organico a disposizione della scuola, altre 30-40 circa per viaggio di istruzione e uscite didattiche varie. Poi ci sono progetti, conferenze, assemblee, autogestioni e scioperi di diverso genere che sottraggono insieme circa altre 70-80 ore, e si deve considerare che ogni studente si assenta mediamente per 100 ore in un anno.
A occhio e croce le ore effettive di scuola sono circa 700, che calcolate per una giornata scolastica di 5 ore, a conti fatti, sono più o meno sei mesi di didattica “tradizionale”. Soltanto sei mesi.
A mio parere questo profilo della scuola italiana delinea una potente selezione di classe. È del tutto evidente infatti che coloro che ne comprendono la portata e hanno i mezzi per porvi rimedio, completano l’istruzione dei propri figli con laboratori e corsi privati, iniziative educative personali o supporti di varia natura. Gli altri, invece, si tengono soltanto i sei mesi. Don Milani si starà rivoltando nella tomba.
Occorre comunque esser grati ad Andrea Schiavon per aver riaperto un dibattito con il suo bel volumetto, e come lui stesso ricorda nel libro, “un dibattito serio non si esaurisce in un like, ma dura cinquant’anni. E resta ancora aperto” (p. 123).