Il filosofo Savater riassume come la politica arriva al fallimento

di Elisabetta Rosaspina 21 settembre 2017 Il Corriere della Sera

Referendum Catalogna, l’intervista a  Savater:

«Un compromesso non è possibile»

Il filosofo e scrittore: «Non si voterà, a Barcellona si rischiano atti di violenza». Nato nei Paesi Baschi, ha firmato un manifesto contro il referendum: «Madrid inerte da 5 anni»

Il referendum del primo ottobre per la nascita della Repubblica indipendente di Catalogna non si farà, è convinto Fernando Savater; e, se il governo centrale si fosse mosso prima e con maggior fermezza, non si correrebbe ora il rischio di veder scorrere il sangue per le strade di Barcellona. Basco di nascita, professore di Etica, opinionista politico, autore di decine di testi filosofici e firmatario, con altri 400 accademici spagnoli, di un «manifesto sulla situazione in Catalogna», Savater sintetizza il senso dell’appello in cinque parole: «Che Madrid applichi la legge». Ma dal testo trapela inquietudine per il modo in cui il governo autonomo ha alimentato «il fondamentalismo di un inesistente diritto a decidere» fino a «spaccare la società catalana e impedire l’esercizio dei diritti delle minoranze parlamentari, mettendo a rischio la convivenza e la pace civile».

Professor Savater, non c’era modo di evitare di arrivare a questo punto?

«Certo. Ma il governo centrale è stato inerte per cinque anni. Non ha fatto rispettare la Costituzione e ha adottato contromisure minime, insufficienti a impedire questa aggressione alla democrazia. Ha lasciato correre, sperando che il problema si sarebbe risolto da solo, mentre l’indipendentismo è andato crescendo».

E come si sarebbe potuto risolvere da solo?

«A differenza dei baschi, i catalani hanno fama di essere commercianti, gente ragionevole, moderata, disposta a scendere a patti. C’era l’idea, errata, che la questione sarebbe rimasta lì sul tavolo, senza andare oltre la discussione».

Nonostante gli indipendentisti siano arrivati al 48% alle ultime elezioni? Non era un campanello d’allarme?

«I partiti indipendentisti non hanno necessariamente l’indipendenza nel loro programma. Il Pnv (Partito nazionalista basco, ndr) è un esempio. L’indipendenza è per molti di loro soltanto un luogo meraviglioso, come il cielo per i cattolici. Il guaio è che il governo catalano sia finito in mano a una minoranza estremista come la Cup (Candidatura di unità popolare)».

Il governo catalano sostiene di aver cercato invano un compromesso con Madrid.

«Un compromesso con che cosa? Bisogna chiedere a tutti gli spagnoli se sono d’accordo con l’indipendenza della Catalogna. E, prima ancora, se vogliono un referendum. Non è possibile che gli abitanti di una nazione si dividano il territorio a loro piacimento. Sarebbe come se i texani decidessero di staccarsi dagli Stati Uniti perché si ritengono differenti dai cittadini della federazione».

L’ondata di arresti, il sequestro delle schede elettorali non stanno dando una grossa mano alla campagna referendaria?

«Si sente dire, ma non è vero. Nel Paese Basco si sosteneva che, se fosse stata arrestata la direzione di Batasuna (partito messo fuori legge nel 2013 perché ritenuto il braccio politico dell’Eta, ndr), si sarebbe scatenato l’inferno. È stato fatto, e l’Eta ha finito di uccidere. Madrid applichi seriamente la legge e smetta di dare tanti soldi alla Catalogna».

Tanti soldi?

«Sì, la Catalogna è la regione più indebitata di Spagna, con 75 miliardi di euro. Riceve il doppio o il triplo degli investimenti concessi ad altre regioni».

Si può arrivare a una soluzione senza umiliare una delle due parti in causa?

«No, non si può: l’umiliazione dei secessionisti è un momento di pedagogia, perché ciò che fanno è incompatibile con la democrazia. Bisogna portarli in tribunale e in carcere perché non si ripeta più».

Il ministro catalano Raül Romeva si è paragonato a Rosa Parks, che sedendosi in un posto riservato ai bianchi cambiò la storia americana.

«Se a Barcellona ci fosse Rosa Parks  parlerebbe castigliano nelle scuole. Non esiste Paese in Europa dove non si possano educare i propri figli nella lingua ufficiale».

L’Europa dovrebbe prendere posizione?

«Sì, se vuole evitare ripercussioni. Difendere le leggi dello Stato spagnolo è difendere l’Unione Europea. Oggi è la Catalogna, domani saranno la Padania, il Veneto o la Corsica. Vogliamo un’Europa delle tribù?».

C’è da temere che la situazione degeneri nelle piazze?

«La Guardia Civil ha ricevuto ordine di non reagire, di non difendersi, di mantenere un profilo bassissimo. Ma se c’è un atto di violenza per qualcuno può finire male».

 

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