La destra di Rajoy non può gestire questa situazione

di Maurizio Matteuzzi 29 settembre 2017  il manifesto
 Catalogna: a 48 ore dal referendum l’incognita del voto e dell’indipendenza

Nessuno può ragionevolmente dire cosa accadrà domenica prossima in Catalogna. Quel giorno, primo ottobre, è fissato il referendum per la secessione dalla Spagna e l’indipendenza.

Voluto dal governo separatista di Barcellona (eletto nel settembre 2015, sostenuto dal centro-destra del Partit Demócrata Catalá, dal centro-sinistra della Esquerra Republicana de Catalunya e dalla “sinistra anti-capitalista” della Candidatura d’Unitat Popular riuniti nella coalizione Junts pel Sí con alla testa l’ex sindaco di Girona Carles Puigdemont), che lo considera come parte indiscutibile dell’inalienabile diritto all’autodeterminazione dei popoli e del “diritto di decidere” dei catalani. Negato con furore dal potere centrale di Madrid, che lo considera illegale e contrario alla costituzione del 1978.

Se domenica il voto avrà o avesse luogo, i 5 milioni e mezzo di elettori catalani dovranno o dovrebbero dire “sì” o “no” su una scheda con scritto la frase: “Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di repubblica?”, secondo quanto stabilito da un legge frettolosamente votata in giugno da Junts pel Sì nel Parlament catalano. Una brutta legge che non pone alcun quorum minimo al referendum pur considerandolo vincolante, su cui Podemos si è astenuto, i socialisti catalani del PSC e la destra spagnolista hanno votato contro.

In realtà si tratta della sfida – e della crisi – più grande che la Spagna (e la monarchia dei Borbone) si trova ad affrontare dalla morte di Franco nel ’75 e dal ritorno della democrazia (una transizione taroccata, una democrazia zoppa fondata sul binomio “amnistia-amnesia”, ma questo è un altro discorso). Un possibile scontro frontale di due treni lanciati a tutta velocità l’uno contro l’altro, che avrà o avrebbe conseguenze drammatiche sul futuro della Spagna ma anche dell’Europa se solo si pensa al probabile effetto domino.

Al momento appare difficile che il referendum possa svolgersi, o svolgersi regolarmente, dal momento che il potere centrale – “Madrid”, incarnata nel premier Mariano Rajoy, del Partido Popular erede diretto della destra franchista, nei giudici del Tribunale Costituzionale e, con qualche vago distinguo, anche nel leader dell’opposizione socialista Pedro Sánchez – hanno alzato un fuoco di sbarramento legale e pratico difficile da contrastare.

Urne e schede confiscate; denunce e multe contro sindaci e amministratori catalani; arresto di 14 funzionari della Generalitat; commissariamento dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana; invio di contingenti della Guardia Civil; blocco delle finanze della Regione catalana; dichiarazioni di Rajoy di essere pronto a “tutti gli scenari”; voci di un imminente arresto di Puigdemont che rilancia accusando Madrid di avere “sospeso di fatto l’autonomia della Catalogna e aver imposto di fatto uno stato d’emergenza”.

Una escalation sempre più difficile da fermare in uno scenario sempre più complicato da decifrare. Perché i furori pro e contro l’indipendenza hanno travolto trasversalmente i tradizionali schieramenti di destra e di sinistra, hanno investito i miti e la storia (quelli della sovranità catalana risalenti addirittura all’impero carolingio del VII secolo, quelli della caduta di Barcellona nel 1714 nel corso della Guerra di Successione fra gli Asburgo e i Borbone, e quelli più recenti e dolorosi legati alla repubblica e al colpo di stato franchista del 1936), hanno ingarbugliato e impedito una risposta a una domanda ineludibile: l’indipendenza di chi e per che cosa? Come si tengono il tema nazionale e il tema sociale in Catalogna (e in Spagna)? Ha ragione Tariq Alì, l’intellettuale di sinistra anglo-pakistano, che vede il movimento per l’auto-determinazione della Catalogna “largamente dominato dalla borghesia catalana”? Ha ragione quel migliaio di intellettuali “di sinistra” spagnoli e catalani, dichiaratamente “oppositori di Rajoy” che però hanno firmato un manifesto contro il referendum, “una truffa anti-democratica”?

La destra catalana e catalanista del PDeCAT al governo a Barcellona contro la destra spagnola e spagnolista del PP e di Ciudadanos al governo a Madrid; la sinistra con pezzi al governo a Barcellona (ERC e CUP), pezzi all’opposizione (il PSC, la branca catalana del PSOE), pezzi in mezzo al guado e divisi al loro interno fra “diverse sensibilità” (quelli più nuovi e interessanti: Catalunya en Comú della sindaca Ada Colau e En Comú Podem, il ramo catalano di Unidos Podemos, favorevoli al referendum come “mobilitazione” contro Rajoy ma non all’indipendenza unilaterale e invece, sulla falsariga del leader di Podemos Pablo Iglesias, a un “referendum concordato con Madrid e internazionalmente riconosciuto”). La chiesa cattolica catalana in campo, a chiedere “fraternamente” la mediazione di papa Francesco, con una lettera firmata da 420 ecclesiastici, perché intervenga su Madrid per porre termine alla “repressione” e consentire il regolare svolgimento del referendum.

Disinnescare la bomba catalana più si avvicina l’1 ottobre appare sempre più improbo vista la polarizzazione delle posizioni. E l’incertezza sui risultati: i sondaggi, quasi unanimi, danno (o davano) una consistente maggioranza a favore del referendum ma i “sì” in minoranza rispetto al “no”. Entrambi i fronti si sono ormai spinti a un punto di non ritorno. L’ipotesi più probabile, salvo sorprese dell’ultima ora, è che il referendum non si faccia o sia palesemente insufficiente per una proclamazione unilaterale dell’indipendenza. In quel caso Rajoy, con la benedizione del resto della Spagna, potrebbe addirittura invocare l’articolo 5 della costituzione e mandare l’esercito. Più verosimile che la Generalitat si dimetta e convochi nuove elezioni. Poi si vedrà.

Se l’indipendenza sarebbe un salto nel buio per la Catalogna (intanto, da subito, fuori dalla UE), sarebbe un colpo tremendo per la Spagna: significherebbe perdere la regione più ricca, 16% della popolazione, 20% del PIL, 25% delle esportazioni, 20% del gettito fiscale, giù giù fino al 29% delle medagli olimpiche ai giochi di Rio de Janeiro e al 26% dei giocatori della nazionale di calcio. Poi ci sarebbero, altrettanto devastanti, gli effetti sul piano della politica e dell’immagine.

Forse per disinnescare la bomba catalana sarebbe bastato (o basterebbe) un po’ meno di “spagnolismo”. Per esempio accordare anche alla Catalogna un proprio sistema regionale di Giustizia e l’autonomia fiscale, con la relativa libertà di disporre delle proprie imposte, riconosciuta, fra le 17 regioni, solo ai Paesi Baschi (perché c’era l’ETA?) e alla Navarra.

Forse questo avrebbe cancellato una delle principali fonti della rabbia catalana: versare a “Madrid” più denaro di quanto “Madrid” riversi poi a Barcellona (la differenza è 10 miliardi di euro secondo Madrid, 16 miliardi secondo Barcellona). Ma le richieste in tal senso del presidente della Generalitat catalana Arturo Mas (dello stesso partito di centro-destra di Puigdemont, anche se ha cambiato nome) furono seccamente respinte, nel 2012 nel pieno della grande crisi che aveva colpito in modo drammatico anche la Catalogna, dal premier Mariano Rajoy.

Ora il ministro dell’economia spagnolo, Luis de Guindos, dice (ma al Financial Times) che “si potrebbe parlare di una riforma del sistema di finanziamento e di altre questioni” con i dirigenti catalani. Troppo poco e troppo tardi?

Aspettando domenica prossima col fiato sospeso, una cosa sembra sicura: che finché la destra “spagnolista” e post-franchista di Rajoy resterà al palazzo della Moncloa, una seria revisione costituzionale in senso federale o confederale della Spagna che ne sancisca il carattere “plurinazionale” non ci sarà e la “guerra” fra Madrid e Barcellona non finirà. Ma questa volta non si tratta solo del classico di calcio Real-Barça.

 

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