Il mondo dei mercanti

Limes 8 Giugno 2018 di Federico Petroni

IL G7 DELLE GUERRE COMMERCIALI  

Va in scena a Charlevoix, in Québec, un G7 all’insegna delle guerre commerciali. Tutti i suoi partecipanti – meno gli Usa – in settimana hanno reagito ai dazi su acciaio e alluminio approvati da Trump con delle tariffe mirate a colpire le importazioni dagli Stati Uniti.

In particolare il Canada padrone di casa, che più ci rimette dalle misure protezionistiche varate a Washington, soprattutto per difendersi nella rinegoziazione del Nafta, in corso in questi mesi. Secondo fonti francesi, l’Ue avrebbe ottenuto l’apertura di un tavolo tecnico con gli Usa per discutere i rispettivi dazi.

Trump ha riproposto un tema a lui caro: il riavvicinamento alla Russia. Materialmente impossibilitato dal perseguire l’obiettivo dall’opposizione in patria di apparati e Congresso, il presidente ha lanciato la provocazione di riammettere Mosca nel G7, ottavo membro sospeso con la crisi ucraina. Il premier italiano Conte, dopo un iniziale sostegno, deve essere stato riportato a miti consigli, visto che Angela Merkel ha poi comunicato la contrarietà di tutti i membri europei.

In generale, il G7 permette di misurare la temperatura dell’unilateralismo in salsa trumpiana, in linea con l’idea del presidente di dismettere gli obblighi derivanti dal primato mondiale degli Stati Uniti. E cavalcato dal resto dell’amministrazione perché funzionale ad altri obiettivi geopolitici di Washington.

Fra questi, isolare l’Iran con sanzioni che finiscono per colpire gli europei, i più interessati ad approfondire le relazioni commerciali con Teheran. I dazi servono scientificamente a ricordare chi comanda sul Vecchio continente; i suoi governi devono sottostare all’agenda di Washington. Se vogliono mantenere a tutti i costi in vita l’accordo sul nucleare denunciato da Trump stesso, rischiano una punizione.

Il messaggio non sembra esser stato recepito. Bruxelles ha annunciato contro-dazi su prodotti Usa del valore di 2,8 miliardi di euro più altri dal 10 al 50% su beni fino a 3,3 miliardi entro il 2021. Ma al contempo ha fatto domanda per esentare le proprie aziende dalle sanzioni made in Washington. Essendo la partita giocata proprio su questo, difficilmente l’Ue otterrà quanto richiesto.

I NUOVI GOVERNI EUROMEDITERRANEI

I due nuovi governi nati questa settimana nell’Europa mediterranea sono destinati ad avere un orientamento politico opposto e costrizioni molto simili.

Nel caso dell’Italia, l’alto debito pubblico per circa il 30% in mani estere e la bassa crescita riducono i margini per un allontanamento dall’austerità voluta dalla Germania, mentre sulla gestione dei migranti, al netto dell’eventuale contenimento dei flussi alle frontiere dell’Ue, la solidarietà continentale non pare destinata a sfociare in una redistribuzione sostanziale delle quote. Senza il consenso degli Usa, l’adesione all’Alleanza Atlantica preclude un riavvicinamento alla Russia; la rottura dell’unità sulle sanzioni a Mosca isolerebbe in Europa il governo Conte.

In Spagna, il nuovo primo ministro Pedro Sánchez ha voluto mandare un messaggio di segno completamente opposto all’euroscetticismo italiano: le nomine dell’ex presidente dell’Europarlamento Josep Borrell al dicastero degli Esteri e dell’eurocrate Nadia Calviño all’Economia indicano l’euroentusiasmo di Madrid. E nascondono la sostanziale assenza di alternative di un paese che ha bisogno di Bruxelles e delle altre capitali europee per continuare a crescere e scongiurare l’indipendenza della Catalogna.

CONFERME DAL VENEZUELA

Questa settimana sono arrivate conferme riguardo due delle crisi che sta vivendo il Venezuela.

La crisi petrolifera: la compagnia nazionale PdVsa ha comunicato a otto acquirenti del suo oro nero di non poter rispettare gli impegni presi sulle forniture. Il calo della produzione di greggio sta avendo un impatto – oltre che sul prezzo internazionale del petrolio – sulle dissestate finanze di Caracas, già alle prese con l’esaurimento della pazienza creditizia della Cina.

La crisi geopolitica: la risoluzione con cui l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) ha condannato le elezioni presidenziali del 20 maggio scorso ha un duplice significato. È vero che ormai il regime di Nicolás Maduro vanta pochissimi alleati nella regione, ma è altrettanto vero che non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi necessaria a sospendere dall’organizzazione il Venezuela, che tra l’altro ha annunciato un anno fa il proprio ritiro dall’Osa.

La volontà di non rompere con Caracas, il timore di apparire agli ordini degli Stati Uniti o altre preoccupazioni di politica interna continuano a prevenire la formazione di un blocco anti-madurista in grado di esercitare una pressione che non sia solo simbolica.

USA-TURCHIA-PKK  di Daniele Santoro

Gli Stati Uniti continuano a puntare su Erdoğan. È questo il significato dell’accordo su Manbij raggiunto a Washington in occasione dell’incontro tra il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu e il segretario di Stato Mike Pompeo. L’accordo prevede un piano in tre fasi i cui dettagli erano già noti prima dell’incontro: evacuazione delle milizie delle Ypg, l’ala militare siriana del Pkk; cogestione turco-statunitense dell’area; insediamento di un governo locale a maggioranza arabo-sunnita. Per Erdoğan si tratta di un successo mediatico-elettorale, più che geopolitico. In termini reali, l’importanza geopolitica di Manbij nell’equazione sirachena è prossima allo zero. Ma il capo di Stato ne ha fatto un feticcio per esibire una vittoria che non esiste. Con la provvidenziale sponda dello Stato profondo Usa, che dopo aver inchiodato il presidente turco alla sacca a nord di Aleppo per quasi due anni gliela offre su un piatto d’argento a meno di tre settimane dalle decisive elezioni del 24 giugno. Ma c’è ovviamente molto di più.

PUTIN IN AUSTRIA  di Paolo Quercia

Durante la visita di Putin  la scena è stata rubata da Kurz, l’astuto primo ministro dei popolari, che nel ribadire lo stretto rapporto tra Vienna e Mosca ha sottolineato che l’Austria non chiederà di rimuovere le sanzioni alla Russia se non vi sarà unanimità tra i paesi Ue. Kurz, che ha mantenuto il dossier dei rapporti con l’Europa, sa benissimo che la partita strategica che conta con Mosca non riguarda le sanzioni sull’interscambio commerciale, ma il raddoppio del gasdotto Nord Stream 2. E su questo tema Vienna sa di non poter adottare posizioni di rottura rispetto a Berlino, che punta fortissimo sul progetto energetico. Anche perché del consorzio fa parte l’austriaca OMV. Il giovane premier ha così mandato un velato messaggio: non è interesse dell’Austria fare da stampella della Russia in funzione anti-Ue – come magari vorrebbe l’FPÖ – anche perché ciò non è negli interessi della Germania.

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