Lirio Abbate – L’Espresso 23 Dicembre 2018
Cosa nostra ha perso
La mafia dei corleonesi, la più importante e sanguinaria, è stata sconfitta. Il procuratore Giuseppe Pignatone spiega perché la vittoria dello Stato è stata ottenuta con il Diritto, come è avvenuto per il terrorismo. Ma c’è ancora molto da fare contro le connivenze con il potere
I pentiti hanno reso i “siciliani” inaffidabili presso le altre organizzazioni criminali.
Il loro ruolo ora è stato preso dalla ‘ndrangheta calabrese
Chi vive in Sicilia e conosce da quarant’anni gli odori e i sapori di Palermo, chi ha visto i cattivi protagonisti di stagioni devastanti e atroci che hanno modificato la città, e per questo ne riconoscono la puzza del fango che ha imbrattato i siciliani, vede pure come la mafia e il metodo mafioso oggi hanno cambiato pelle e fisionomia, scivolando verso il basso. Per dirla con le parole di un importante magistrato, Giuseppe Pignatone, procuratore di Roma, che per oltre quarant’anni ha coordinato inchieste contro i boss a Palermo e a Reggio Calabria, e i processi che ha istruito hanno portato in carcere centinaia e centinaia di mafiosi e loro favoreggiatori per scontare secoli di carcere, ecco, oggi si può dire che è finita un’epoca criminale, perché «Cosa nostra corleonese è stata sconfitta».
La disfatta dei “militari”
È dunque la fine di un’epoca, quella che ha sconvolto un Paese, dove sono stati rivoluzionati governi, deviati percorsi politici e finanziari, modificato il dna degli abitanti, in particolare dei familiari delle vittime innocenti di una mafia che si è opposta allo Stato, quello con il quale in precedenza è andata a braccetto, e poi gli ha fatto la guerra, nel tentativo di rifare pace.
«Sono profondamente convinto», dice il procuratore Giuseppe Pignatone «che Cosa nostra corleonese, quella che ha fatto le stragi, è stata sconfitta dallo Stato». È un’affermazione forte, decisa, e il magistrato spiega questa svolta giudiziaria parlando agli studenti della facoltà di Giurisprudenza dell’università “La Sapienza” durante una Lectio magistralis che si è svolta il 28 novembre scorso. È un resoconto motivato, analitico, in cui Pignatone facendo sempre riferimento a Cosa nostra corleonese tiene a sottolineare che è stata «sconfitta dallo Stato, cioè da tutti noi».
«La fine di questa mafia corleonese si può segnare anche con una data che è l’11 aprile 2006 giorno dell’arresto di Bernardo Provenzano, latitante da 43 anni. Tutti ci siamo chiesti come si può restare latitante per così lungo tempo, ma la cosa più importante è che questa latitanza sia finita». Il vecchio padrino corleonese che aveva traghettato la mafia stragista di Riina a quella invisibile durante la reggenza al vertice di Cosa nostra, con il suo arresto effettuato da donne e uomini della Polizia di Stato guidati da Renato Cortese, attuale questore a Palermo, chiude di fatto l’esistenza dei corleonesi e quindi della mafia ad essa legata.
Non c’è un nuovo Capo
Perché è la fine di quella Cosa nostra? «Perché è finita la direzione strategica unitaria, monopolizzata per oltre trent’anni dai corleonesi di Riina e Provenzano. Non è un risultato da sottovalutare. Quando i media danno notizia dell’arresto di decine di persone e si dice che tentavano di ricostituire la commissione di Cosa nostra, e quindi c’era l’idea di ricreare la cupola, ma ancora non è stata ricostituita, significa che non è più quella Cosa nostra, né quella mafia che ha messo in crisi lo Stato. Quella che ha provocato le stragi e le morti eccellenti».
L’intervento del procuratore è antesignano, arriva una settimana prima del blitz dei carabinieri a Palermo che hanno fermato l’uomo indicato come il nuovo capo della Commissione: è il vecchio Settimo Mineo, nominato al vertice dell’organizzazione da pochi mesi e subito scoperto dai carabinieri del colonnello Antonio Di Stasio, coordinati dai pm dell’antimafia palermitana e quindi bloccato sul nascere. Per Pignatone «è giusto riconoscere che la mafia corleonese, quella che ha avuto capi come Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, quella che ha dominato la scena dagli anni Settanta, è stata sconfitta».
Politica “morbida”
«La chiave del successo di Cosa nostra corleonese e la ragione della sua forza erano nella sua struttura unitaria e verticistica, nella capacità di seguire una guida autorevole e capace, sia pure con modi e stili diversi, dalla ferocia più spietata a una capacità di mediazione apparentemente inesauribile, di controllare le inevitabili tensioni interne all’organizzazione ponendosi, allo stesso tempo, come interlocutore forte e affidabile verso l’esterno. La cattura di Provenzano ha significato la fine di tutto ciò. Ce lo dicono le cronache e le indagini di questi anni, durante i quali la repressione non ha dato tregua all’organizzazione. Con i capi quasi tutti già detenuti, spesso condannati all’ergastolo, le ondate di arresti hanno riguardato nuovi boss dallo spessore criminale con ogni evidenza inferiore a quello dei predecessori. Così possiamo affermare che finora il tentativo di ricostruire una direzione unitaria è fallito. Un risultato da non sottovalutare, anche perché la lunga “stagione corleonese” non trova paragoni con le tante altre fasi della storia pluridecennale di Cosa nostra, nell’inevitabile alternarsi di alti e bassi, con momenti di maggiore o minor fortuna, tanto che lo storico Salvatore Lupo ha affermato che “l’era dei Corleonesi” deve essere considerata “come una parentesi nella storia della mafia”».
La mafia esiste da due secoli, ma prima dell’avvento di Riina non si era mai posta contro lo Stato, come hanno fatto i corleonesi, il traguardo di tutte le mafie è la convivenza con lo Stato, e c’è una forma di convivenza più o meno pacifica, più o meno contrastata, «in cui la mafia riconosce il ruolo primario dello Stato», dice Pignatone, per il quale: «Lo Stato non adopera tutte le sue risorse e tutta la sua forza per sconfiggere Cosa nostra. Questo è l’ideale di tutte le mafie. Perché in un contesto di questo genere si fanno affari. E si accumula ricchezza. Quella Cosa nostra degli anni ’70, ’80 e fino al 2006 è stata diversa, ha preteso di avere un ruolo di primazia rispetto allo Stato, di comandare sullo Stato, per questo ha ucciso il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, il prefetto Dalla Chiesa e decine di poliziotti, carabinieri, magistrati, medici, sacerdoti e giornalisti, e poi le stragi del ’92 e quelle del ’93 a Roma, Milano e Firenze. Ha tentato di eliminare quelli che in qualche modo si opponevano a questo disegno, in primo luogo, naturalmente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».
Non era follia ma strategia
Le sentenze definiscono questo periodo terrorismo politico-mafioso. «Mafioso perché era la mafia siciliana, politico perché dietro c’era un disegno politico e di connivenze anche politiche, e terrorismo per i metodi usati. È stato un disegno lucido, non era folle e infatti è durato quarant’anni», spiega il capo dei pm romani. I corleonesi non erano dunque dei folli, seguivano invece una strategia, dettata da chi?
«Non si può liquidare questa strategia di Cosa nostra con il ricorso semplicistico al termine “follia” se si pensa che la leadership corleonese ha retto per un periodo di almeno trent’anni durante i quali, e fino all’ultimo, ha potuto godere di complicità e collusioni a ogni livello, ancora oggi solo in parte svelate, e che anzi ha visto la sua potenza, la sua ricchezza e, quindi, la sua pericolosità crescere fino al culmine delle stragi siciliane e di quelle in continente e alla reazione repressiva, ma anche politica, sociale e civile da esse determinata. È vero invece che in Sicilia, sia pure con insufficienze e ritardi, lo Stato ha saputo reagire a questa sfida mortale».
Il rafforzamento della mafia di Riina passa anche dal terrorismo. «Dobbiamo riportarci a quegli anni alla sfida mortale del terrorismo rosso o nero tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando tutte le risorse dello Stato vengono finalizzate e focalizzate per resistere alla sfida del terrorismo, e le mafie passano in seconda fila, e di questa distrazione i boss ne approfittano per rafforzarsi. Il punto più alto della sfida terroristica è il 16 marzo 1978, con il sequestro di Aldo Moro, ed è anche il punto in cui la mafia comincia la serie di omicidi eccellenti in Sicilia. È emblematico che Piersanti Mattarella venga ucciso il 6 gennaio 1980, lui che era uno degli allievi prediletti e un erede di Aldo Moro».
La legge ha vinto
«Dobbiamo essere consapevoli ed orgogliosi che lo Stato abbia vinto con il diritto, con i processi e con le leggi ordinarie sconfiggendo prima il terrorismo e poi Cosa nostra corleonese», sottolinea Pignatone.
«Le indagini ci dicono che la mafia siciliana continua a consumare estorsioni, omicidi, molto meno per fortuna, a cercare di trafficare in stupefacenti per quello che gli viene lasciato dalla ‘ndrangheta». «Poi magari», aggiunge il procuratore, «può darsi che un giorno ci diranno che ha recuperato posizioni, che magari sa sfruttare la finanziarizzazione e la globalizzazione dell’economia, comunque non sarà più quella Cosa nostra». E ripete: «Cosa nostra è stata sconfitta, i collaboratori di giustizia hanno minato la sua credibilità, il patrimonio più importante per un’associazione mafiosa, che di fatto è segreta, e la sua affidabilità verso l’esterno che è costituita dall’omertà, che è la sicurezza di non avere traditori in casa. Centinaia di collaboratori di giustizia dimostrano al mondo, sia quello legale sia quello criminale, che questa affidabilità non c’è più».
Si è creato un vuoto, e in natura il vuoto non è consentito, nemmeno nel mondo criminale, e il vuoto lasciato da Cosa nostra, soprattutto sul traffico mondiale degli stupefacenti, è stato coperto dalla ‘ndrangheta, che ha offerto quelle garanzie e quelle caratteristiche che prima erano della mafia siciliana, e dopo la guerra che lo Stato ha fatto a Cosa nostra, i siciliani non potevano più garantire: «Innanzitutto l’affidabilità economica, il pagamento cash di qualunque somma, e poi la sicurezza, la mancanza di collaboratori di giustizia per i calabresi che ti porta a concludere affari senza problemi di tradimenti».
Potevano prenderli tutti
La mattina del 15 gennaio 1993 la commissione di Cosa nostra si riunisce a Palermo nell’abitazione di Salvatore Biondino. Sono presenti Giuseppe Graviano ed altri boss corleonesi. Quel giorno però Riina non arriverà all’incontro perché viene arrestato dai carabinieri del Capitano Ultimo e con il capo dei capi viene fermato anche Biondino, che era alla guida dell’auto del boss, e all’epoca non era per nulla conosciuto come un capomafia. Biondino per la giustizia era un semplice cittadino, tanto che andava in giro con i suoi veri documenti di identità. Come racconta ai pm l’ex autista di Graviano, Fabio Tranchina (verbali del 16 e 22 aprile 2011), tutti i capimafia compreso il boss di Brancaccio quella mattina aspettavano Riina a casa Biondino. E sono rimasti ad attenderlo per diverse ore, fino a quando la notizia dell’arresto è stata divulgata dai notiziari straordinari di radio e tv.
Quella è stata l’ultima volta che si è radunata la commissione. Come in “Sliding Doors”, se in quella occasione gli investigatori avessero eseguito subito dopo l’arresto la perquisizione a casa di Biondino – come avviene di solito – avrebbero trovato e sorpreso tutti i boss corleonesi, latitanti compresi, e in questo modo si sarebbe decapitata completamente Cosa nostra evitando, quindi, anche le stragi del ‘93. Ma è un’ipotesi. Resta però che a casa Biondino la perquisizione è tardata ad arrivare.
Alcuni anni dopo, quando i collaboratori di giustizia svelarono la vera identità mafiosa di Biondino, gli investigatori della Dia trovarono sotterrati nel giardino della casa del boss diversi contenitori di plastica contenenti banconote per decine di milioni di lire.
Cos’è oggi la mafia
Di molti delitti eccellenti e stragi sono stati accertati esecutori e mandanti appartenenti a Cosa nostra. È stato riconosciuto dai giudici con una storica sentenza come la mafia di Riina ha trattato con pezzi delle istituzioni nel 1992. Ma nonostante lunghe e approfondite indagini su omicidi e attentati, non sono state finora accertate responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra. Ci sono molti complici e favoreggiatori, fuori dalla mafia, ancora da individuare e processare. Il silenzio in carcere dei corleonesi, come i Graviano, potrebbe essere capitalizzato al momento giusto. E in tanti tremano.
I corleonesi in questi ultimi decenni sono stati colpiti con arresti, condanne e confische di patrimoni, mentre i loro avversari palermitani – che facevano riferimento al boss Stefano Bontate – sono stati decimati da agguati e stragi, ma sono rimasti ricchi ed economicamente potenti perché fino a pochi anni fa non si poteva più aggredire il patrimonio dei boss deceduti, rendendo ricchi eredi e prestanome, ormai intoccabili. Ed è sempre un “palermitano”, il boss Giovannello Greco ad aver ottenuto – l’unico fino adesso – la revisione del primo maxi processo a Cosa nostra ottenendo pochi anni fa per la sua posizione un parziale annullamento della sentenza. Oggi Greco è in libertà. Ed è sempre lui, secondo Giovanni Brusca, ad aver riavuto – minacciando un corleonese al quale aveva sequestrato moglie e figli – la grossa somma di denaro che negli anni Ottanta aveva investito tramite Bontate, in alcune imprese a Milano.
I tanti collaboratori di giustizia degli ultimi anni, spesso giovani, svelano ai pm i rimasugli di una organizzazione che pare a tratti persino stracciona. Le “famiglie” però non sono ancora ridotte a criminalità di strada, «momento che secondo Giovanni Falcone segnerebbe la fine della mafia», e molto – come ha sostenuto Pignatone – resta ancora da fare perché nella vita sociale, politica, economica si possa riscontrare il rifiuto di nuovi patti e accordi basati sulla reciproca convenienza e la rottura di quelli già stipulati, magari da molti anni. Per acquisire pienamente questa consapevolezza «è necessario conoscere a fondo la mentalità dei mafiosi, la loro doppiezza, la loro spietatezza, ma anche la loro intelligenza»