Il PD ha un vizio dentro di sé, nello scioglimento la ri-generazione

Il Riformista Fausto Bertinotti — 16 Febbraio 2021
La crisi dei dem
Il PD non è stato ucciso dai 5 Stelle, ha un vizio dentro di sé

 

“Tutto a posto e niente in ordine”, recitava così un vecchio film di Lina Wertmüller. L’articolo 92 della Costituzione ci dice che “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. È quel che è accaduto, manca soltanto qualcosa d’altro che vive nella Costituzione repubblicana e cioè la partecipazione popolare, il ruolo del Parlamento e il protagonismo dei partiti. Questi ultimi, invece di realizzare le alleanze politiche e programmatiche necessarie a configurare la maggioranza parlamentare in grado di dar vita e sostenere un governo, sono individuate nel percorso con il quale sono i due presidenti a dar vita al governo. Ci sarà tempo per nominare questa nuova forma di democrazia autoritaria.
Intanto, questo rovesciamento del rapporto tra il governo e i partiti politici ha prodotto un’onda d’urto che li ha investiti sino a mutare le relazioni nella geografia politica che precedeva l’evento, a cambiare la collocazione politica di alcuni di essi e a produrre lacerazioni profonde in altre. Solo il Pd resta impermeabile all’onda nella quale si è immerso. La ragione a me sembra evidente. Esso è diventato il partito che, più di ogni altro, si è fatto custode della stabilità del sistema politico reale, del governo, quando questo c’è; nella costruzione del nuovo governo, quando esso è venuto meno. Questo punto analitico a me pare troppo sottovalutato, quasi sempre ridotto a uno dei tanti fattori della crisi della politica sinistra italiana e della sua mutazione storica intervenuta. Ho l’impressione, invece, che esso pesi così tanto nella cultura politica del Pd da costituire l’abito mentale della sua classe dirigente.

Questa volta, certo, la spinta è stata potente. L’implosione della maggioranza nel secondo governo Conte è stata improvvisa e devastante. La sua crisi-non-crisi poteva apparire fisiologica, essere senza fine, invece il suo precipitare nella crisi formale ha certificato il fallimento, la catastrofe di tutta la politica di un’intera fase. La chiamata di un Papa straniero lo ha certificato. L’emergenza politica sull’emergenza generata dalla pandemia ha indotto al grande strappo. Con il governo dei due presidenti si cambia la gerarchia nel sistema politico e i partiti vengono calamitati dal nuovo centro che così si costituisce, un centro decisionale dal sapore vagamente tecnocratico, piuttosto che il classico centro politico.
Intanto, se ne può indicare un terzo. Questo potrebbe partire dalla critica delle ipotesi di una possibile rinascita della sinistra in Europa, sia per la via liberaldemocratica, che per quella che potremmo chiamare neo-socialdemocratica. Se ne dovrebbero pur riconoscere i punti di forza, ma ancora di più si dovrebbe dimostrarne l’inattualità, proprio di fronte alla natura inedita del capitalismo finanziario globale e allo storico mutamento nella formazione del senso comune e delle soggettività critiche nella società civile. Un buon punto di partenza sarebbe, in ogni caso, il cimento sulle cause che hanno condotto il Pd alla sua attuale posizione. Non parlo qui degli errori politici che ogni partito può compiere, senza con ciò cambiare la sua collocazione nella società, né la percezione di sé che in essa si è venuta a formare.

Parlo di quelle che Althusser chiamava le rupture, cioè quelle che possono cambiare il corso della storia. La prima rottura operata dal Pd è con la storia della sinistra come movimento operaio del Novecento. Piuttosto che farvi i conti, per capire ciò che in esso era morto e ciò che restava vivo, o almeno promesso, si è scelto l’ignavia, la sospensione della memoria. Alla critica necessaria di un’ideologia, il marxismo-leninismo, e al necessario oltrepassamento di Marx, si è sostituito il rifiuto dell’ideologia, ma senza ideologia, oggi, si vede che non ci sono né soggettività né comunità politica durevoli, che non c’è una realtà politica e sociale capace di affrontare la grande questione della forza. La costruzione della comunità europea e la sua collocazione nella globalizzazione capitalistica hanno costituito, per tutte le forze politiche in ogni paese europeo, il banco di prova del nuovo secolo.

L’Europa reale e la sua costituzione materiale hanno divorato la sinistra politica riformista. Prima c’è stata la prova dei governi di centrosinistra e i danni sociali da essi provocati sino a Blair, poi l’adesione al dogma di Maastricht e infine il sostegno all’austerity, in un quadro di un’Europa oligarchica e intergovernamentale. Tutto ciò l’ha spiantata dai popoli e l’ha configurata come parte dell’intero sistema. Se non si vuole ricorrere all’analisi sociale e ambientale, bastino le nuove pagine dei romanzieri inglesi sulla devastazione di popolo nelle aree della deindustrializzazione. L’urlo dei migranti come dei carcerati può essere l’altro lato di un disastro di cui si è finiti con l’essere corresponsabili. La precarietà è diventata la cifra del nostro tempo e della nostra società.

Il governativismo non è quindi un incidente, un errore solitario, o soltanto il prodotto di un deficit di cultura politica né il prodotto della denunciata povertà di una classe dirigente politica. Il governativismo è l’approdo necessitato dell’abbandono dell’ideologia (l’organizzazione di un pensiero critico nei confronti del nuovo capitalismo) e della sostituzione del cittadino senza più identità sociale alla classe e al popolo, quali riferimenti base della soggettività politica, dell’organizzazione politica. L’una e l’altro, la classe e il popolo, sono stati destrutturati da una sconfitta storica che hanno subito, e da una rivoluzione capitalistica restauratrice che si è affermata. Ma l’una e l’altro non sono i risultati di un momento, non sono il risultato di un’istantanea, ma di un processo, se vogliamo chiamarlo così, di un processo costituente. Fuori da questa ricerca di teorie e di prassi, non c’è salvezza per la sinistra che, fuori da essa, smette persino di essere tale, precisamente come accade al Pd.

Viene sempre in mente la profezia di Augusto del Noce: «Quando il Pci smetterà l’ancoraggio di classe diventerà un partito radicale di massa». Per il Pd, la profezia declina in un partito liberale votato da ceti medi istruiti. Un partito politicamente impotente. L’uscita dalla crisi allora non va cercata in vie brevi, perché ciò che lo ha ridotto così non sono né gli alleati di volta in volta adottati, né solo l’ultima esperienza di governo. Non sono stati i Cinque stelle a cooptare il Pd in un’area populista, sono stati invece entrambi cooptati dalla governabilità. Il governo dei due presidenti ha fatto completare ai Cinque stelle tutto l’arco delle possibilità di stare al governo: con le destre prima, con il centrosinistra poi, infine aderendo alla chiamata dall’alto.

Il conflitto tra il basso e l’alto della società su cui erano nati è stato così sepolto. Il soggetto politico populista a vocazione trasversale non c’è più come tale. Se fosse dipeso dal suo abbraccio mortale, il Pd oggi ne sarebbe liberato, ma l’immobilismo del Pd non risiede nel rapporto con un altro, sta dentro di sé, è il suo “vizio assurdo”. Per liberarsene, mi era sembrato persino proponibile pensare all’autoscioglimento e alla mobilitazione di forze liberate per realizzare un processo costituente di una forza “liberatrice”. “Riformatore” era il termine che adottavano i padri per sottrarsi all’indicibile riformista e al non più dicibile rivoluzionario. Forse oggi si potrebbe dire semplicemente “socialista”. Intanto sarebbe già qualcosa se qualcuno come Bartleby lo scrivano dicesse al governissimo dei presidenti soltanto: “Preferirei di no!”

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