Padri ed antipadri nella vicenda politica italiana

Massimo Recalcati La Stampa, lunedì 8 marzo 2021
L’ultimo padre

“Basta coi padri!” è il monito che si è alzato caparbio dai tempi della grande contestazione del ’68.


Non si dovrebbe dimenticare il nocciolo di verità che questo slogan portava con sé: se il padre dell’ideologia patriarcale pretendeva di dire l’ultima parola, quella definitiva, sul senso della vita e della morte, era giusto che la generazione dei figli rivendicasse con forza il suo diritto di parola. Da quel momento in poi il declino del padre-padrone è apparso irreversibile. Questo processo ha travolto anche la politica. Possiamo pensare che l’ultimo grande leader che in Italia abbia incarnato il simbolo del padre sia stato Enrico Berlinguer.
Non la versione padronale, autoritaria e repressiva del padre – oggetto della giusta critica del movimento del ’68 –, ma una paternità che, seppur ferita e indebolita, sapeva ancora preservare il suo tratto profondamente carismatico. I funerali del segretario del Pci non hanno dunque solo segnato la fine di un’epoca politica, ma anche il declino inarrestabile di un tipo di leadership istituita su quel carisma.
Berlusconi e Grillo hanno, non a caso, incarnato l’anti-padre: il padre-papi che persegue i suoi interessi personali in chiaro conflitto nei confronti del bene comune e il padre-adolescente che manda direttamente affanculo il mondo delle istituzioni e quello della politica. Anche la figura di Prodi non  ha riabilitato la potenza evocativa della leadership paterna. Essa è apparsa come una figura positiva della pazienza e del rigore, della tolleranza e del dialogo – alternativa all’iperattivismo antiistituzionale del berlusconismo -, ma priva di quella autorevolezza carismatica che contrassegna la figura della leadership paterna. Diversa è invece la posizione che sta attualmente occupando nell’immaginario collettivo la figura di Mario Draghi. In un tempo traumatizzato dall’epidemia, di recessione economica e di profondo disagio sociale, di tensioni civili e di incertezza angosciata rispetto all’avvenire, era quasi inevitabile che si riesumasse una leadership in grado di riattivare la funzione orientativa del padre. In questo senso profondo Draghi si profila come un paradossale erede di Berlinguer. Il forte richiamo all’unità nazionale, la necessità di trovare un compromesso tra gli schieramenti antagonisti ponendo il bene del Paese come bene superiore, la restituzione alle istituzioni del loro valore etico prima ancora che politico, definisce il movimento di fondo del draghismo che converge con quello che animò il pensiero del segretario comunista.
Anche il carattere degli uomini appare simile. Solo che in Berlinguer la parola preservava ancora la sua forza profetica capace di adunare il suo popolo. Draghi sceglie invece la via composta e rigorosa del silenzio. Entrambi non amano apparire, non amano la seduzione dell’immagine. Ma mentre Berlinguer resta un leader profondamente immerso nella storia del Novecento e dei suoi conflitti, quella di Draghi appare una figura ideologicamente desensibilizzata. In primo piano non è una chiara spinta ideale ma un ascetismo di matrice weberiana: laboriosità, dedizione, rispetto delle istituzioni e  della propria parola. Egli incarna il resto del padre spogliato da ogni involucro ideologico. E, tuttavia,   come è accaduto in modo più deciso con Berlinguer, la sua azione investe la politica di una questione morale.
La critica alla politica che egli ha dichiarato di non voler provocare deriva, in realtà, fatalmente dalla sua postura: la verbosità parolaia del politico in cerca di consenso immediato deve lasciare il posto al  silenzio nobile della prassi. I figli litigiosi vengono obbligati a rimettere le loro pietre nelle tasche per il bene comune. L’obbiettivo non è però solo quello della gestione dell’emergenza sanitaria. La pacificazione forzata imposta dalla voce riesumata del padre ha di mira un obbiettivo inevitabilmente politico: restituire alle istituzioni la loro funzione che non è quella di soffocare repressivamente o burocraticamente la vita, come l’ha descritta insistentemente il populismo giallo-verde, ma di proteggerla favorendone l’espansione. La Legge del padre che i figli volevano seppellire ritorna così al centro della scena. Il pericolo è che questo accadesse con il ritorno del bastone e della reazione.
Ma il draghismo non opera affatto in direzione del nazionalismo sovranista, essendone piuttosto la diga che ne contiene la spinta. Sebbene ogni padre sia condannato a portare con sé il sospetto dell’abuso di potere e del dispotismo, lo stile di Draghi appare alternativo ad ogni fanatismo, compreso quello paternalista. Nel suo stile soggettivo non emerge alcuna vocazione autoritaria, ma quello spirito di servizio di cui spesso la politica dà prova di mancare.

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