di Marco Damilano 20 giugno 2021 L’Espresso
Salvini allontana le elezioni fino alla scadenza naturale. Una mossa che avvicina Draghi al Quirinale. E un patto tra i sovranisti e l’establishment che stritola il PD
Nella primavera del 1993, nel pieno della crisi di Tangentopoli, con ministri colpiti dagli avvisi di garanzia che si dimettevano uno a uno, i sondaggi elettorali fotografavano una situazione di stallo. Il crollo dei partiti di governo con un terzetto in testa.
La Swg (13 aprile 1993) dava la Dc in picchiata ma ancora al 22 per cento, il Pds di Achille Occhetto al 16,2, la Lega al 15,5 secondo la Swg (23 marzo 1993). La Directa (13 aprile) collocava il Pds al primo posto con il 20 per cento, la Dc al 18,2, la Lega Nord di Umberto Bussi al 15,5. Con i risultati di questi sondaggi, qualche mese dopo, furono disegnati gli scenari politici post-voto sulla base della nuova legge elettorale, il Mattarellum, relatore l’attuale capo dello Stato, che introduceva i collegi uninominali per Camera e Senato. La Lega avrebbe conquistato i collegi delle regioni del Nord, il Pds quelli delle regioni rosse centrali, la Dc avrebbe tenuto le sue roccaforti al Sud. Ancora nel gennaio 1994, con il Parlamento già sciolto e le elezioni già fissate per la fine di marzo, la coalizione di sinistra (i Progressisti) guidata da Occhetto aveva spartito le candidature tra i vari partiti del raggruppamento sulla base di quei numeri. Nella città di Roma, ad esempio, girava un foglio con una proiezione molto rassicurante: su 24 collegi uninominali, avevano giurato gli esperti, ben 22 sarebbero stati conquistati dalla sinistra, uno era dato per incerto e soltanto uno irrecuperabile, il quartiere Prati-Mazzini-Delle Vittorie, che infatti toccò a Gianfranco Fini. Quando si andò a votare si scopri una realtà capovolta. Su 24 collegi 22 andarono alla destra, uno alla sinistra ma soltanto perché la destra non era riuscita a raccogliere le firme, uno soltanto fu espugnato dai progressisti con risultato pieno (la 32enne Giovanna Melandri nel quartiere rosso di Testaccio, cominciò da quella vittoria la sua brillante car-riera politica). Cos’era successo, nel frattempo? Una cosa semplice semplice, ma evidentemente non avvistata dagli astuti strateghi elettorali dei progressisti: la nascita di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi. Su cui per mesi aveva battuto e ribattuto il direttore dell’Espresso Claudio Rinaldi (quanto ci manchi, Claudio!). Fece il pieno dei voti dei vecchi partiti di governo: la Dc, il Psi. Il sistema era cambiato e richiedeva nuovi interpreti elettorali e politici. Arrivarono, infatti. Qualcosa di simile è successo anche nel 2013, quando nelle ultime due settimane il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo prese il volo e, mi ha raccontato una volta Ilvo Diamanti, nelle rilevazioni assomigliava a un titolo di borsa impazzito per eccesso di rialzo, nessuno riusciva a capire a che quota si sarebbe finalmente bloccato. E lo stesso è accaduto anche nel 2018, con il crollo del Pd renziano e la vittoria di M5S, imprevedibili in quelle dimensioni, e il sorpasso della nuova Lega di Matteo Salvini su Forza Italia, un altro evento su cui in pochi avevano puntato alla vigilia del voto.
Il sondaggio Ipsos della settimana scorsa, secondo cui il Pd sarebbe al 20,8 per cento, Fratelli d’Italia al 20,5, la Lega al 20,1 e il Movimento 5 Stelle al 14,2, ha fatto molto discutere e ha rappresentato per Enrico Letta una boccata d’aria. Era da tre anni che il Pd non compariva come primo partito, anche se virtualmente e per uno zero virgola. Ma nessuno oggi può scommettere se davvero saranno questi i partiti che gli elettori troveranno sulla scheda quando si andrà a votare. Sì, appunto: ma quando si andrà a votare? Fino a qualche settimana fa gran parte del ceto politico era in attesa di un voto anticipato di un anno rispetto alla scadenza naturale della legislatura. Eleggere il nuovo presidente della Repubblica e votare all’inizio del 2022: era la richiesta del centrodestra unito, dalla Lega a Fratelli d’Italia a Forza Italia, tutti desiderosi di incassare il risultato promesso dalle rilevazioni. La novità, per ora non esplicitata, ma sussurrata nei palazzi della politica, dal Quirinale a Palazzo Chigi, è che Matteo Salvini ha cambiato idea. Non vuole più andare alle elezioni nel 2022, preferisce mandare avanti la legislatura fino al termine dei cinque anni. Con qualche buona motivazione: nessuno oggi risparmia al Capitano leghista il pericolo di sorpasso di Giorgia Meloni. Se così fosse, tra otto-nove mesi l’incarico di formare il governo toccherebbe a lei, la prima arrivata nel club della destra. E sarebbe vanificata la trasformazione avviata con l’ingresso della Lega nel governo Draghi: cambiare rotta rispetto all’estremismo sovranista del quinquennio 2015-2020 e presentarsi come il volto mode-rato della Nazione. Meglio aspettare tempi migliori e vota-re nel 2023. Ma il tempo è tutto in politica. E il cambio di calendario di Salvini trascina conseguenze a catena. La prima, la più importante, è l’ipoteca sul Quirinale. Il G7 della Cornovaglia e il vertice della Nato hanno riconosciuto il ruolo internazionale della nuova Italia di Mario Draghi. Un’apertura di credito che ruota sulla figura del premier, la sua autorevolezza, il suo prestigio e una buona dose di fattore C che non guasta. La fortuna dell’Italia e di Draghi è l’allineamento degli astri nello scenario internazionale. L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca sta provocando i primi effetti: non solo il governo di unità nazionale di Draghi in Italia, ma anche il nuovo governo di unità anti-Netanyahu in Israele. C’è poi il clima crescente di guerra fredda e di competizione con la Cina. E il vuoto di potere che si è aperto in Europa con i due principali paesi, Germania e Francia, in campagna elettorale. Tutto spinge Draghi a proseguire nel suo lavo-ro di governo. A meno che, nell’accordo che prevede l’allontanamento della data del voto fino al 2023, non ci sia anche la clausola dell’elezione del premier al Quirinale. E il proseguimento per un anno del governo Draghi ma senza Draghi, o meglio, con più Draghi. Draghi presidente della Repubblica a vigilare, controllare, indirizzare dal Colle e un suo uomo o donna di fiducia a Palazzo Chigi, a proseguire il lavoro del governo, senza scossoni e nuove instabilità (Michele Nicoletti interviene nel dibattito a pagina 20): il ministro dell’Economia Daniele Franco o la ministra della Giustizia Marta Cartabia. P il Contratto che si prepara. Di quello interno al centrodestra e tra la famiglia Berlusconi, l’azienda Mediaset e la Lega ne parla Carlo Tecce nelle pagine che seguono. Il ribaltamento esatto di quanto accadde venti anni fa, quando la Lega di Bossi si impegnò a firmare un patto anti-ribaltone con l’egemone Cavaliere di Arcore, un foglio che prevedeva anche un impegno economico del capo di Forza Italia a favore del Carroccio. Oggi serve un nuovo capo, che tuteli l’integrità di Mediaset nei prossimi anni. Salvini si muove, organizza, chiama personaggi anche molto lontani dal suo percorso, prova a presentar-si come il leader che riunificherà le anime del moderatismo italiano. Quando sarà riuscito nell’obiettivo potrà di nuovo distanziare Giorgia Meloni nei sondaggi e aspirare a essere il leader della nuova fase, a costruire il partito simbolo del nuovo sistema. E poco importa se poi sarà davvero lui a guidarlo o una figura più solida e spendibile sul piano europeo e internazionale. Il Contratto era già pronto due anni fa. Fu Salvini a strapparlo perché preferì coprire la trattativa del suo uomo di fiducia Gianluca Savoini con i russi di Vladimir Putin per qualche milione di dollari, rivelata dall”Espresso nel febbraio 2019. Seguì il gelido viaggio dell’allora ministro dell’Interno a Washington, con la negazione del selfie con Donald Trump. E poi il harakiri nel Parlamento europeo, quando la Lega restò isolata nel voto sulla nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Il Papeete e l’uscita dal governo furono le conseguenze di questa catena di errori. Ora si prepara il Contrattone. La guerra dei populisti nel campo moderato, cominciata venti anni fa, si conclude con la possibile fusione Lega-Forza Italia. Il centro-destra diventa destra-centro, ma da anti-sistema diventa sistema. Punta a intestarsi il nuovo interclassismo, gli autonomi e gli interessi del grande capitalismo dal volto umano e dall’affiato riformista rappresentato da Draghi. Un nuovo patto tra produttori, un piccolo compromesso storico, questa volta a destra, sulla linea di quell’accordo che ha sempre governato l’Italia, da Alcide De Gasperi e Raffaele Mattioli in poi, tra chi ha il consenso e assicura la pace sociale e chi detiene il potere finanziario: il “Quarto Partito”, il Partito dei Soldi. Il Movimento 5 Stelle, magma informe, seguirà, anzi, sta già seguendo. Lo ha detto Luigi Di Maio (La Stampa, 14 giugno): M5S punta a essere il partito del ceto medio, del centro. E chissà, domani il ministro degli Esteri tornerà a guardare a un’alleanza con Salvini, con cui – a fine legislatura – avrà in fondo condiviso la presenza al governo per quattro anni su cinque. L’operazione 2023 ha un grande escluso che si chiama Pd. Ci si può rallegrare di uno zero virgola in più nei son-daggi e perfino lavorare con ottimismo per un buon risultato alle elezioni amministrative di autunno. Ma i gazebo disertati nelle primarie di Torino, in attesa di quelle di Roma e di Bologna, testimoniano di una partecipazione po-polare rarefatta. Nella società il Pd ha perso i suoi avamposti storici. Il pubblico impiego. La scuola. Il mondo della cultura. La produzione, con le piccole e medie aziende abbandonate a se stesse. Gli operai. I 5,6 milioni di poveri assoluti registrati dall’Istat nel 2020, in crescita al Nord. Cosa restava all’attuale Pd? Il rapporto privilegiato con l’establishment, stabilito in decenni di frequentazioni, costruito grazie all’affidabilità dei professionisti di partito, garantito dalla continuità trentennale di un esponente del centro-sinistra al Quirinale, per cui in un governo tecnico o dí unità nazionale la partecipazione del Pd veniva ritenuta indispensabile. E l’europeismo: essere in Italia il partito dell’Europa, con í suoi uomini ai vertici delle istituzioni di Bruxelles, David Sassoli e Paolo Gentiloni. Se vengono meno anche questi due fondamenti, occupati dalla nuova Lega moderata, il destino del Pd somiglierà sempre di più a quello dei socialdemocratici tedeschi o dei socialisti francesi. L’irrilevanza. E sarebbe ancora più amaro che a gestire il declino sia Enrico Letta, il segretario più vicino all’establishment e più europeista che il Pd abbia mai avuto. Le agorà volute da Letta sono lodevoli nelle intenzioni, ma restano un fatto comunicativo e non un progetto politico se non è chiaro il punto di arrivo. Il punto di arrivo non può essere dichiarato, ma è inevitabile. Un partito nuovo, un cambio di partito, una classe dirigente diffusa, un’anima popolare con cui tornare in sintonia, l’identità da ricostruire. Che scelga, non che si faccia scegliere, da Conte o altri. In grado di parlare a quel pezzo di Italia che non vorrà mai adeguarsi al contratto salviniano, sia pure moderato. La prossimità, la chiamano. Ma servono uomini e donne di territorio, capaci di interpretare la società. Altrimenti si replica il modello 5 Stelle: un partito di dirigentini staccati dalla realtà, tutti on line. Soltanto più antipatici. ■