Cambiano gli equilibri in tutte le aree di conflitto mondiali

Scenari di Dario Fabbri 19 marzo
Una guerra per procura nel mondo che cambia

 

Assieme alla locale lotta per l’indipendenza, in Ucraina è in corso l’ennesima guerra per procura tra Russia e Stati Uniti. Dopo averlo addestrato a lungo, in queste ore Washington continua ad armare massicciamente l’esercito di Kiev, fornisce preziosa intelligence alla presidenza Zelensky, invia sul terreno migliaia di veterani per scongiurare la resa.

 

Quindi annuncia drastiche sanzioni contro l’Orso, lo estromette dal sistema swift, applica l’embargo al petrolio siberiano. Per provocare l’impantanamento del Cremlino, per coagulare intorno a sé lo sfilacciato fronte occidentale.

Nuovo capitolo di uno scontro atavico, consumato nei decenni a ruoli alterni in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, apparentemente destinato a estinguersi con il crollo sovietico, invece recentemente proseguito tra il peloso sostegno moscovita all’invasione americana dell’Iraq e l’intervento russo in Siria per impedire il rovesciamento di Assad.

Ulteriore profondità di un conflitto già origine di consistenti ripercussioni per il pianeta. Al cospetto della guerra, la Germania ha annunciato uno straordinario riarmo, capace di trasformarla nella prima potenza militare del continente. Atterriti dall’aggressività moscovita, i paesi dell’Europa centro-orientale respingono con maggiore fervore le dolcezze post-storiche di Bruxelles, perché occupati a sopravvivere. Anelato dagli americani per affrancarsi (parzialmente) dal Medio Oriente, Mosca sta bloccando il rinnovo dell’accordo sul nucleare iraniano per scongiurare l’inondazione sul mercato di idrocarburi persiani, incontrando l’immediato apprezzamento di Israele, affatto casualmente tra i mediatori della guerra.

Contrari a ogni apertura in favore di Teheran, i sauditi hanno respinto la richiesta di aumentare la produzione di petrolio per supplire all’assenza di quello russo, smarcandosi dagli apparati statunitensi, costringendoli in Venezuela per coinvolgere il regime madurista, pronto a rinverdire la propria congiuntura.

Dipinta dagli americani come il male del XXI secolo, la Cina sta profittando del momento per presentarsi come soggetto responsabile, disposta a frenare le crudeli pulsioni della Russia, a discutere con gli Stati Uniti l’andamento delle ostilità, quasi esistesse l’impossibile G2. Mentre brandisce il precedente ucraino per indurre Taiwan alla resa. In attesa di nuove evoluzioni che offrirà il dipanarsi del conflitto.

Secondo stime di anonimi funzionari ucraini, finora almeno 4mila combattenti statunitensi hanno raggiunto il paese su un totale di circa 20mila volontari occidentali, attraverso il confine con la Polonia e con la Romania.

Si tratta di veterani delle guerre di Siria e Iraq, contractors e fucilieri dilettanti, partiti con l’ardente motivazione di sconfiggere l’invasore, presenti soprattutto tra la Sloboda e la regione di Kiev. Dove combattono per il Cremlino anche migliaia di volontari di estrazione cecena o mediorientale, invitati nell’agone perché privi di scrupoli nei confronti della popolazione autoctona.

In questi giorni i miliziani americani si incontrano sul terreno con gli stessi militari ucraini recentemente introdotti dal Pentagono alla contemporanea dottrina militare. Ufficialmente Washington punisce severamente ogni diretta partecipazione alle ostilità, eppure consente ai principali quotidiani d’Oltreoceano di raccontare la vicenda – sviluppo impossibile senza il placet federale.

Gli Stati Uniti intendono beneficiare del possibile inabissarsi altrui, dopo un ventennio trascorso a dissanguarsi in guerre strategicamente inutili. Volontà dimostrata dall’esistenza di una diretta linea telefonica con Mosca per scongiurare incidenti.

Declinata nelle informazioni fornite dalla Cia ai soldati ucraini, puntualmente a conoscenza dei movimenti dei russi, mentre il Cremlino risulta sovente all’oscuro della presenza nemica, anche per questo incline ad agire in modo grossolano. Nello specifico: operatori dell’intelligence seduti nella sede di Langley, in Virginia, e in Germania inviano ogni due ore fotografie satellitari e intercettazioni telefoniche ai colleghi ucraini.

ARMAMENTI PER LA RESISTENZA UCRAINA

La presenza americana si sostanzia anche nella continua consegna di armamenti al governo di Kiev, condotti in aereo alla frontiera occidentale e lì affidati a emissari locali. Tra il 26 febbraio e il 3 marzo Washington ha inviato al governo Zelensky 17 mila missili anticarro, tra questi i Javelin, dal valore di 350 milioni di dollari, sei volte di più della cifra recapitata negli ultimi sei mesi.

Iniziativa ampiamente sbandierata, accolta dalle principali nazioni occidentali, altrettanto indaffarate a rimpinguare l’arsenale ucraino – compresa l’Italia, presente in loco anche con un aereo spia.

«Gli americani, come i loro alleati, sono ormai dei cobelligeranti, dunque obiettivi legittimi di ogni rappresaglia», ha tuonato il portavoce del Cremlino, Dimitrij Peskov.

Finora il confronto si mantiene dentro un codice non scritto, ma potrebbe precipitare improvvisamente. Ai primi di marzo il Pentagono ha lungamento considerato di consegnare all’Ucraina 28 caccia MIG-29 ricevuti dal governo polacco, fino ad autorizzare il trasferimento dei velivoli nella base tedesca di Ramstein. «Non posso fornirvi una tempistica, ma posso dirvi che ci stiamo pensando molto concretamente», aveva dichiarato in merito il segretario di Stato, Tony Blinken, volato al confine galiziano per farsi fotografare con l’omologo Dmytro Kuleba. Prima di abbandonare il proposito per la concreta possibilità di finire dentro uno scontro nucleare.

Già abbastanza per scatenare la reazione del Cremlino. Il 13 Marzo trenta missili russi cruise hanno colpito la base ucraina di Yavoriv tra Leopoli e il confine polacco, luogo designato allo smistamento di armamenti provenienti dall’estero, all’addestramento delle forze autoctone per mano di ufficiali occidentali – qui sono presenti almeno mille volontari stranieri, specie americani. Trentacinque persone sono rimaste uccise e quasi 200 ferite, ma non è chiaro se tra queste vi fossero anche occidentali.

Nel più significativo evento dall’inizio del conflitto, potenzialmente in grado di allargare la contesa al resto del mondo. Inconfondibile il messaggio lanciato da Mosca contro ogni coinvolgimento esterno, cui è seguito un tweet del dipartimento di Stato per confermare la presenza in loco di personale statunitense, lituano, polacco, britannico.

Mentre cadeva il primo cittadino americano dall’inizio delle ostilità, il giornalista Brent Renaud ucciso dai russi alle porte di Kiev. «La Russia pagherà caro la sua morte, presto comprenderà la gravità di un tale errore», ha scolpito Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale, interpretando il drammatico episodio come un attacco contro Washington.

Il giorno successivo proprio Sullivan è volato a Roma per incontrare il massimo diplomatico del partito comunista cinese, Yang Jiechi, minacciando Pechino di gravi rappresaglie qualora sostenesse finanziariamente o militarmente il Cremlino.

Senza dubbio il momento più rivoluzionario degli ultimi anni. Con Washington angosciata dell’intervento cinese in una guerra sul suolo europeo, con Pechino nell’improbabile ruolo di rappresentante di Mosca, cui risulterebbe ormai superiore per status e potenza.

IL VALORE DELLE SANZIONI

Oltre alla presenza sul campo, gli Stati Uniti hanno imposto alla Russia drastiche sanzioni commerciali e finanziarie. Nella speranza che gli oligarchi putiniani congiurino contro il capo, perché infuriati per il netto scadimento della propria ricchezza. Nell’illusione di piegare il popolo russo attraverso le ristrettezze economiche, ovvero un’asettica normalità per gran parte della cittadinanza. Soprattutto tali misure servono a serrare il campo occidentale, storicamente indeciso su come agire nei confronti dell’Orso, adesso coagulato intorno a Washington. Comunione di intenti destinata a durare poco – la fine dei combattimenti riaccenderà le differenze – ma al momento assai preziosa.

In questo clima è inevitabile che Volodymyr Zelensky si confronti frequentemente con la Casa Bianca e che una sua eventuale resa sia da concordare con gli apparati d’Oltreoceano, forse perfino oltre la volontà del diretto interessato.

LE CONSEGUENZE PER L’EUROPA

Segnata dall’avanzata russa, dalla resistenza ucraina puntellata dagli americani, la guerra sta provocando turbamenti anche nel resto del mondo, con sviluppi già ampiamente intellegibili. Il voto dello scorso 2 marzo in seno all’assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’azione del Cremlino palesa le divisioni esistenti. Se ad esprimersi contro Mosca sono state le cancellerie occidentali oppure quelle legate agli Stati Uniti, sul tema si sono astenuti – tra gli altri – Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Vietnam, Iran, Iraq, Sudafrica, Algeria, Angola, Mozambico. Per un totale di quasi quattro miliardi di persone rappresentate.

In Europa, continente dominato dagli americani da oltre trent’anni, l’invasione dell’Ucraina ha prodotto reazioni potenzialmente decisive. La Germania ha annunciato uno straordinario piano di riarmo, con il budget della difesa che nei prossimi anni potrebbe superare il 2 per cento del pil. Evoluzione inedita, inevitabilmente destinata a risvegliare tra i vicini europei i mal sopiti timori per la questione tedesca.

Finora la svolta di Berlino è stata accolta con soddisfazione dagli americani e dagli altri occidentali, ma nel medio periodo Parigi proverà a imbracare tanta spesa all’interno dell’onirico esercito europeo, provocando la secca reazione dei teutonici, poco favorevoli ad affidare i propri uomini ai generali francesi.

Allora i governi limitrofi accuseranno la Repubblica Federale di voler trascendere gli strumenti commerciali per imporsi sul contesto.

Prodromi di un periodo di notevole tensione, aggravata dall’intenzione per i paesi baltici ed ex comunisti  di agire unilateralmente dopo aver assistito all’aggressione russa. Già solitamente restii ad accettare una legislazione europea ritenuta pericolosamente minimalista, perché capace di privare le popolazioni del necessario afflato bellicoso per affrontare la Russia.

E ora maggiormente persuasi della necessità di tornare nella storia, anziché scivolare nell’economicismo cantato dalle cancellerie occidentali. Come dimostrato dal sarcastico intervento della premier lituana Ingrida Šimonytė al termine del consiglio europeo di Versailles, quando ha definito storica la promessa associazione all’Unione Europea dell’Ucraina anziché la sua adesione.

Nei prossimi mesi i governi centro-orientali respingeranno con accresciuta sicumera le richieste di Bruxelles, nella consapevolezza d’essere troppo utili come ultima frontiera antirussa per meritare l’espulsione dall’architettura comunitaria, fedeli soltanto agli Stati Uniti – anche per schermarsi dal ritorno della Germania. Ne deriverà un continente segnato da profonda instabilità, scosso nel suo ventre da un conflitto latente, bisecato dalle incompatibili fasi vissute dalle nazioni occidentali e orientali.

IL CONFLITTO IN MEDIO ORIENTE

La guerra in Ucraina sta incidendo notevolmente anche sul Medio Oriente. Dopo aver sostenuto a lungo il negoziato, il Cremlino vuol provocare il fallimento dell’accordo sul nucleare di Teheran, per colpire gli americani e scongiurare l’arrivo sul mercato di grandi quantità iraniane di idrocarburi, reclamate da Washington per ovviare all’assenza del petrolio russo.

Adesso Mosca pretende una sospensione soltanto parziale delle sanzioni applicate a Teheran per limitarne la capacità di esportazione, provocando il rifiuto degli ayatollah, impedendo agli americani di dedicarsi nella regione soltanto alla manutenzione di un involontario equilibrio di potenza tra turchi, persiani e sauditi. Probabilmente il principale argomento trattato a Mosca il 5 marzo scorso da Vladimir Putin e dal premier israeliano Naftali Bennet, impegnati a sventare il compromesso sul nucleare iraniano, benché per ragioni assai diverse. Assieme a una franca discussione sul destino dei circa 200 mila ebrei presenti in Ucraina, discendenti dell’antica cultura askenazita, cifra culturale dello Stato di Israele.

Intanto gli Stati Uniti hanno registrato un netto peggioramento delle relazioni con Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. La scorsa settimana il principe ereditario saudita Mohammad bin Salmān s’è rifiutato di conferire al telefono con Joe Biden perché irritato dall’apertura americana verso l’Iran, dall’indagine federale sul caso Jamal Kashoggi.

Netto il diniego di Riad a un aumento della produzione di petrolio, ritenuto nocivo per i prezzi e per le proprie esigenze strategiche. Sicché proprio il 5 marzo una delegazione americana è volata a Caracas per proporre a Nicolás Maduro un incremento dell’esportazione di greggio verso gli Stati Uniti, altro tornante della guerra. Dopo anni trascorsi a sostenere il principale oppositore locale, Juan Guaidó, gli americani hanno inghiottito l’orgoglio per colpire la Russia. Durante il colloquio il dittatore venezuelano s’è detto disposto a collaborare, ma pretende un allentamento delle sanzioni. Se ne riparlerà. Intanto Caracas ha ostentato il bilaterale, al fine di rompere l’isolamento.

LA REAZIONE DELLA CINA

Notevole l’impatto del conflitto anche sulla narrazione e sull’approvvigionamento della Repubblica Popolare. Per anni descritta dagli Stati Uniti come potenza malvagia, a causa del maltrattamento degli uiguri e della repressione di Hong Kong, Pechino interviene nella crisi vendendosi come interlocutore affidabile, certamente più presentabile della Russia, archiviando almeno parzialmente la narrazione avversa. In queste ore numerosi governi occidentali invitano Xi Jinping a intercedere nei confronti del Cremlino, annunciando l’intensificazione dei rapporti diplomatici con l’autoritario impero del Centro, cui soltanto poche settimane fa pensavano di applicare sanzioni.

Primo partner commerciale dell’Ucraina, la Repubblica Popolare si impegna a mediare tra le parti per proteggere i latifondi acquistati, per scongiurare che Mosca fagociti il paese impedendo il passaggio delle nuove vie della Seta – nell’ultimo anno Pechino ha investito oltre 2 miliardi di dollari nel paese. Mentre pregusta il prezzo ribassato che probabilmente spunterà per gli idrocarburi siberiani, scontati dalle minori vendite sul fianco occidentale.

Quindi Pechino utilizza gli eventi ucraini per aumentare la pressione su Taiwan, l’isola ribelle che vorrebbe annettere con il negoziato o con la forza. Negli ultimi giorni funzionari cinesi hanno segnalato al governo di Taipei la concreta possibilità d’essere abbandonato dagli americani in caso di invasione comunista.

Secondo la propaganda pechinese, l’Ucraina sedotta dalla Nato e poi lasciata al suo destino, dovrebbe suggerire ai taiwanesi di rinnegare le ambizioni indipendentiste. In realtà i contesti sono profondamente diversi: gli Stati Uniti interverrebbero certamente in difesa di Formosa, pena rinunciare allo status di prima potenza globale. Ma i mandarini profittano della forzata analogia per seminare terrore nell’isola, scossa in questi giorni dal rombo dei caccia cinesi nei propri cieli.

Manovre che palesano la temporanea distrazione degli americani, disposti ad agire in Ucraina contro la Russia per abitudine e per puntellare il decisivo continente europeo. Infischiandosene della grammatica che imporrerebbe di dividere il fronte nemico anziché compattarlo.

Tra le più rilevanti conseguenze del conflitto in corso, al contempo un’aggressione russa, una campagna per la sovranità ucraina, una guerra per procura statunitense (e occidentale). Irradiate sull’intero pianeta, destinate a ingrossarsi con il trascorrere dei giorni. Quando ci sveglieremo in una nuova èra.

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