Il fascino delle armi degli editorialisti “migliori”

Il Riformista Michele Prospero — 18 Marzo 2022
Dilaga la nuova dottrina: il Mielitarismo
Che cosa è il Mielitarismo, la nuova dottrina del giornalismo italiano

 

Nel dibattito pubblico italiano si addensa sempre più la nebbia deformante di una bolla ideologica. La situazione effettiva del conflitto è trasparente.

L’imputazione delle responsabilità giuridiche è chiara. E però, invece che su come superare i dilemmi strategici della “operazione speciale” russa, si discorre nei media ad una sola dimensione soprattutto sulla veltroniana “guerra metafisica contro la libertà”. Paolo Mieli, sempre attento alle sfumature linguistiche, stavolta ha rotto gli ormeggi delle mediazioni concettuali per lanciarsi in reiterate polemiche con immagini insolitamente aspre. Un sociologo, che ebbe già il suo quarto d’ora di celebrità quando proprio il Corriere e Repubblica lanciarono un suo libro contenente vere e proprie bestialità concettuali su Gramsci, adesso diventa la testa di turco che con comodità è possibile sfruttare per denunciare il cinismo, le esagerazioni sgrammaticate di chi nell’accademia esce in maniera scomposta dal coro bello (di stampo gentiliano) della comunità ritrovata e omogenea.

Nella grande stampa trionfa una sorta di “Mielitarismo” culturale che prevede azzardati paragoni con gli anni Trenta, denuncia del dissenso pacifista come tradimento dell’occidente, demonizzazione del leader nemico come despota folle alla conquista armata dell’Europa. Proprio gli opinionisti che, sedotti da Salvini e Meloni, avevano combattuto l’ideologia perniciosa dell’antifascismo ora recuperano il mito della Resistenza. Non manca chi accenna l’inno della eticità delle sofisticate armi regalate al popolo ucraino. E tutti i media affascinati dall’estetica del fucile hanno ricamato sull’immagine della bambina con il mitragliatore e il lecca lecca come simbolo della nuova sensibilità morale di un occidente ritrovato nei valori ultimi. Quando si dice guerra metafisica. Persino Angelo Panebianco, dopo una rigorosa indicazione dei risvolti più generali della crisi ucraina (ruolo della Nato e difesa europea, ridefinizione dei bilanci in considerazione dei temi della sicurezza), accantona il sobrio linguaggio del realismo per adottare quello dell’ideologia (la narrazione di una santa guerra tra società aperta e autocrazia). E’ possibile stigmatizzare la strategia aggressiva di Putin senza scomodare le affinità con i baffetti del caporale austriaco?

Charles Tilly (La democrazia, Il Mulino) ha colto il carattere complesso dell’autocrate russo che nel suo dominio “rafforzò la capacità statale a scapito della democrazia”. Per un verso Putin ha inaugurato un processo di “de-democratizzazione” che restringe gli spazi di libertà persino rispetto ai canoni russi (trucchi elettorali, repressione di forze non governative, contrazione del potere dei media), per un altro, se da un regime parzialmente libero egli passò ad un regime non libero, “è riuscito a neutralizzare e a riportare sotto il controllo dello Stato l’oligarchia capitalista che aveva acquisito una straordinaria autonomia”. La dottrina del ministro Di Maio (sanzioni-povertà indotta come leva della insurrezione di popolo indispensabile per deporre il despota) contiene elementi di forte rischio. Imponderabili sono sempre le conseguenze dell’acefalia conseguente alla traumatica sconfitta di una potenza nucleare. Il fallimento militare ed economico della Russia decapitata nel suo centro di comando non è un evento così tranquillo come suppongono Di Maio e il vicedirettore dell’Huffington Post: solleva seri problemi geopolitici, dilemmi strategici paralizzanti. Poco meditate sono anche le prediche di De Rita sull’ingresso nell’economia di guerra come una straordinaria occasione per la ricucitura di autentici legami comunitari.

 

Il regime di Putin non è quello di un “democratico cristallino”, come lo dipingeva Schröder. Neppure è un epigono di Hitler. Il sistema di Mosca è “totalmente nuovo e ha un carattere complesso e multistrato grazie alla combinazione di bonapartismo, fascismo classico e moderno populismo berlusconiano. Il fatto che il putinismo contenga elementi di questi tre sistemi non significa che Putin abbia consapevolmente costruito il suo sistema a partire da questi elementi, anche se l’influenza diretta di Berlusconi su alcuni aspetti del suo sistema non può essere ignorata” (Marcel Van Herpen, Putinism, p. 203). A parte l’accostamento affrettato a Berlusconi, coglie elementi di verità la descrizione del regime russo come “fascist minimum” che non accarezza una ideologia razzista e non arma una milizia di partito. Accanto a chiusure autocratiche contempla la tolleranza per un pluralismo limitato nei media e nella rappresentanza. Per la sussistenza di una investitura elettorale sia pure manipolata si può parlare di un neo-bonapartismo in salsa orientale che persegue una funzione di modernizzazione dall’alto.

Alla componente militare che insegue il sogno di una potenza smarrita si è venuta sempre più ad aggiungere una esaltazione dei valori religiosi nel segno del neo-conservatorismo che saluta la Russia come centro del movimento globale anti-gender e custode della bella tradizione del sacro. Putin si presenta come il salvatore della nazione, l’uomo del destino che mitizza la grande Russia e con la “Unione eurasiatica” si scontra con le minoranze colte, secolarizzare e metropolitane, le Ztl russe con il sogno di occidente. Dal 2015 le “operazioni belliche” (la parola “guerra” è bandita dal lessico) vengono giustificate dalla necessità di portare soccorso all’etnia locale oppressa da odiose milizie naziste. Ricorrendo alle tecniche della post-verità, Putin lancia continue accuse di una penetrazione di gruppi con ideologia nazista che insieme ad “un granello di verità” contengono “vere e proprie invenzioni” come gli attacchi armati antisemiti (Moisés Naím, The Revenge of Power).

L’Ucraina va appoggiata, ma come paese sovrano aggredito, non come la culla della società aperta. Tutti gli indicatori istituzionali e culturali invitano alla cautela sui tempi di una integrazione nel laboratorio europeo di un sistema politico contraddittorio, con miglioramenti parziali e fasi di regressione. Rispetto al quadro del 2013 di Andreas Schedler (The Politics of Uncertainty. Sustaining and Subverting Electoral Authoritarianism, Oxford University Press), l’Ucraina non è del tutto uscita dal novero delle “autocrazie competitive” con un incerto ordinamento costituzionale definito con il passaggio dal partito unico al presidenzialismo assoluto sfuggente a limiti e controlli. Il disarcionamento dei vertici del regime oltre che al voto viene affidato alla insubordinazione di piazza, all’impeachment e agli arresti, con l’irruzione di “guardiani dell’integrità pubblica” che rimuovono gli avversari con pretesti legali e la messa fuori legge dei partiti sgraditi. Il sistema di governo “assolutistico-competitivo” solo parzialmente è stato corretto negli anni più recenti.

Il rapporto annuale “Freedom in the World 2021” segnala la rilevanza dello scontro istituzionale tra il presidente Zelensky e la Corte costituzionale nel corso del quale il capo dello Stato ha tentato di sciogliere la Corte dopo alcune sue sentenze in materia di leggi anticorruzione. Taluni membri della Corte sono stati perseguiti penalmente con l’accusa di sedizione. La politicizzazione di organi tecnici e istituzionali, oltre che dei servizi di sicurezza, rende ancora debole la cornice dello Stato di diritto e molto significative sono le discriminazioni varate contro rom, gay, minoranze di lingua russa. Il ruolo degli oligarchi incide nel funzionamento delle istituzioni, nella contesa elettorale, nella restrizione dei diritti sindacali. Il radicamento della destra radicale e delle formazioni paramilitari è indubbio anche se non nelle dimensioni denunciate dai russi, che nel 2014, dinanzi a 37 deputati e 3 ministri (compreso il vicepremier) espressi da Svoboda, parlarono di una deriva nazista. Roger Griffin (Faschismus, 2020) nomina Svoboda come segno di “un’importante sottocultura neofascista e populista di destra radicale”. Nondimeno “l’ascesa del paramilitarismo nazionalista”, accolto tra le file dell’esercito ufficiale e sottoposto agli addestramenti esteri, è stata poi orientata verso istanze che “funzionano più come temi dei movimenti della destra radicale populista, e talvolta solo della destra populista, piuttosto che come movimenti di nazionalismo rivoluzionario”.

Come spiega la politologa Lenka Bustikova (Extreme Reactions. Radical Right Mobilization in Eastern Europe, Cambridge University Press), “i valori anti-establishment, omofobi, etno-centrici, antisemiti e xenofobi della destra sovranista sono evaporati perché in gran parte riassorbiti dalle forze più grandi che si sono radicalizzate (nelle elezioni del 2014 Svoboda ha perso metà dei voti e va al di sotto del 5%). Poiché i potenti partiti mainstream adottano politiche simboliche, linguistiche e redistributive ostili al segmento russo della popolazione e si ribellano alla inversione di status per la nazionalità dominante la polarizzazione ridimensiona Svoboda quale partito anti-occidentale, anti-liberale e anti-UE” (p. 161). Non c’è una deriva nazista anche se proprio da esponenti di questa area (il presidente della camera) viene l’impulso per la riforma costituzionale del 2019 che stabilisce l’ingresso nella Nato. E però, quanto alla suggestione di Bernard-Henri Lévy di nominare sul campo Zelensky come il padre della nuova Europa, la cautela sarebbe necessaria.

Un fresco volume di Olga Baysha (Democracy, Populism, and Neoliberalism in Ukraine) analizza l’ascesa del comico Zelensky ovvero come un capo di stato televisivo si trasforma in presidente reale. L’oligarca proprietario dei media registra come partito il nome della serie televisiva “Servitore del popolo” e destina ingenti risorse per la campagna elettorale. Il comico, il 31 dicembre del 2018, annuncia la candidatura e nell’aprile del 2019 trionfa al secondo turno come profeta dell’antipolitica e vendicatore della società contro i corrotti. Subito dopo ottiene anche la maggioranza dei seggi con facce nuove, senza alcuna esperienza politica e per questo educate in fretta in un corso celere di formazione tenuto entro un complesso alberghiero. Avvalendosi della serie tv come una solida piattaforma, il comico sostituisce lo scarno programma di 1601 parole per uno “Stato smartphone”: i 51 episodi che lo vedono protagonista sono il suo vero programma dettagliato, oscillando così tra reale e virtuale nel pervasivo linguaggio dell’odio che mette in scena la caduta di Putin e la sparatoria contro la classe politica. La trovata più eclatante della comunicazione con allegorie armate si ha quando nello show “il presidente Holoborodko non avendo più fiducia nella possibilità di riforme anti-corruzione all’interno del sistema di potere esistente, scatena la sua furia con le mitragliatrici, massacrando i deputati proprio nella sala del palazzo parlamentare. Non tutti gli spettatori hanno visto la sparatoria come una semplice fantasia” (p. 57).

Michele Prospero

 

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.