25 Aprile: in Italia non c’è stato un nemico entrato a forza

Domani di Nadia Urbinati 25 aprile
La Resistenza italiana non combatteva contro un invasore, ma contro lo status quo
In questi due mesi di guerra si è cercata una qualche similitudine tra la resistenza del popolo ucraino contro i russi – che giustificano l’azione militare anche con l’argomento delle loro radici nazionali nelle tesse invase – e la resistenza in Italia tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945.

 

Ma non ci sono similitudini. E non perché la nostra resistenza sia più nobile o meriti più solidarietà dell’altra. Le lotte di resistenza contro un invasore sono nobilitate dalla violazione del diritto dei popoli. Anche al tempo della nostra, si ebbero del resto altre resistenze: tutti i paesi europei occupati dalle truppe tedesche al comando di Adolf Hitler conobbero resistenze di civili.

Il motivo dominante in tutti quei paesi fu «la volontà di resistere contro l’invasore straniero», fisicamente distinto e riconosciuto come tale, scriveva Enzo Enriques Agnoletti nella prefazione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi, 1952).

In Italia, invece, «non c’era stato un nemico entrato a forza» – anzi, l’unico esercito entrato a forza fu quello degli Alleati. Da noi era quindi mancato «l’odio per lo straniero invasore» e i motivi patriottici erano associabili «ad un’idea di patria meno elementare, meno fisica» e meno nazionalista. Questa fu una differenza notevole.
Vi era in Italia un’idea di patria che si appellava non a una comune origine contraria a un’altra, ma a un progetto politico contrario a quello che era stato fin lì dominante nel paese: costruire una società libera, laddove nella libertà confluivano idealità diverse, conservatrici e liberali, socialiste e comuniste, cattoliche e laiche.

Scriveva Agnoletti che in Italia «la Resistenza non è stata un resistere, un tener duro, una volontà di non cedere… Seguitiamo a chiamare Resistenza il movimento di liberazione in Italia, ma non dimentichiamo mai che non è stata una resistenza, ma è stato un attacco, una iniziativa, una innovazione ideale, non un tentativo di conservare qualche cosa. Il dato fondamentale non è la lotta contro lo straniero, è la lotta contro il fascismo, e il tedesco è combattuto quasi unicamente perché incarnazione ultima del fascismo suo alleato e complice».
Una guerra di liberazione, una lotta politica di fondazione di un nuovo ordine, spesso identificato con la democrazia – e che in alcune aree del paese, come nelle valli piemontesi generò autonome repubbliche amministrative.

Trovatosi senza stato, dopo l’armistizio con i tedeschi che dall’8 settembre si trovarono a essere nemici assoluti non più alleati del regime fascista caduto il 25 luglio, molti uomini e donne si fecero popolo prendendo le armi contro i nemici totali, con i quali non si poteva trattare.

Agnoletti aggiungeva che quei civili – ma anche ex-militari di un esercito che non c’era più – si fecero popolo scegliendo la strada del combattimento e scegliendosi il nemico. La guerra di liberazione non aveva alcuna giustificazione difensiva, non era una reazione resa necessaria da un’invasione.

Era una scelta di lotta, non di pace o in attesa che altri portassero la pace. E aveva in sé dei valori nuovi o che, se radicati nella cultura risorgimentale, erano stati sepolti dal conformismo di regime. Lottare non per resistere al nemico ma per conquistare libertà e giustizia.

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