Le parole di Lavrov, il segno del degrado della guerra

Alberto Negri il Manifesto 4 Maggio 2022
Putin e Lavrov, c’era una volta la Russia
Il ministro degli esteri russo con le parole «inopportune», ha dato un calcio negli stinchi a un Paese amico, Israele, che non aveva approvato le sanzioni né l’invio di armi

C’era una volta la Russia… Questa è la triste impressione sentendo le parole di Serghei Lavrov, ministro degli esteri della Russia per 18 anni (dal 2004). La traduzione letterale della slavista Olga Strada dell’intervista a Retequattro – canale di proprietà di Berlusconi, amico di lunga data di Putin – è questa: «Posso sbagliarmi ma anche Hitler aveva sangue ebraico. Questo non significa assolutamente nulla. Il saggio popolo ebraico dice che gli antisemiti più accesi di regola sono ebrei». E Lavrov ha pure aggiunto: «Ogni famiglia ha la sua pecora nera».

Niente di più falsamente tragico e sbagliato poteva uscire da questa disgraziata intervista di Lavrov. «Ecco un esempio che ben dimostra come avviene il degrado del sistema», scrive su Instagram Ksenya Sobchak, figlia dell’ex sindaco di San Pietroburgo, amico di Putin. Il ministro degli Esteri era un tempo un diplomatico brillante, un uomo di grande cultura, un erudito. «Ma con il tempo tutto ciò – sottolinea Ksenya – si è rivelato per il sistema come un ammasso di qualità inutili. Quello che non serve sparisce. Mentre la qualità di «buttare lì» una frasetta è il nuovo standard delle relazioni diplomatiche».

Per fortuna il manifesto il suo saggio cronista ce l’ha in casa – Michele Giorgio – che il 3 maggio ha spiegato benissimo il disastro diplomatico compiuto da Lavrov. Ovvero che il premier israeliano Bennett aveva cercato per settimane di non rompere con la Russia – all’inizio di marzo era volato a Mosca per incontrare Putin – per garantire buoni rapporti tra i due paesi e il via libera ai raid israeliani contro obiettivi iraniani in Siria. Non solo. Israele, come la Turchia di Erdogan – con cui Tel Aviv sta riannodando relazioni strategiche -_ non ha aderito alle sanzioni contro Mosca e non ha mai fornito armi all’Ucraina.

Vorremmo anche aggiungere che l’ex capo del Mossad, Ephraim Halevi, nei primi giorni del conflitto in Ucraina su Haaretz ha scritto, nero su bianco, la linea del governo ebraico: «Dobbiamo trovare una via di uscita per Zelensky e per Putin, che ci piaccia o meno». Insomma il ministro degli esteri russo con queste parole inopportune, e anche un po’ male interpretate nella sua crudezza, ha dato un calcio negli stinchi a un Paese amico: ricordiamo che l’ex premier israeliano Netanyahu è stato il capo di governo che in questi anni più volte si è recato a Mosca.

La rottura tra Mosca e Israele è inspiegabile, non ha alcuna giustificazione storica e tanto meno geopolitica. Per questo solleva un’estrema inquietudine. Dov’è la Russia che conosciamo?

Anche per noi c’era una volta la Russia… Lavrov parla oggi dell’Italia come di un Paese amico da cui si sente tradito: non è così. Qui siamo anche i figli di Primo Levi, uno dei pochissimi ebrei tornati da Auschwitz, liberati proprio dai russi dall’Armata Rossa, siamo figli di quella storia tremenda in cui il fascismo, alleato del nazismo, aveva cacciato un’intera generazione. Non lo dimentichiamo. Come non posso dimenticare mio padre uscito nel ’42-43 dalla sacca del Don e salvato dal congelamento dai contadini russi. Parlava poco: «Ricordati – mi disse un giorno mentre guidava l’auto – che se sei qui è perché loro ti hanno salvato». Parlare con lui di quegli eventi era come interrogare una sfinge. Tornarono in pochi.

Per questo la retorica sulla denazificazione oggi non regge più di tanto. Si può colpevolizzare Zelensky finché si vuole per avere chinato il capo agli eredi – il battaglione Azov e le altre forze d’estrema destra – di una storia terrificante che con il collaborazionismo dei gruppi ultranazionalisti e filonazisti ucraini di Stepan Bandera ha fatto 1,6 milioni di morti ebrei tra il 1941 e il 1944. Ma non si può penalizzare un intero popolo. Non è e non dovrebbe essere più la storia di oggi. Lo stesso mondo ebraico aveva fatto negli anni scorsi dell’Ucraina la meta di un turismo religioso venato di esoterismo, da Sabatai Zevi a Jacob Frank, a Baal Shem Tov, fondatore del movimento hasidico, il cui mausoleo si trova nell’Ucraina centrale. Oggi questo è un mondo dove talvolta, e per fortuna, si può chiedere giustizia senza per forza fare una guerra.

Anche se di giustizia, ammettiamolo, da queste parti ne corre poca per i palestinesi, gli iracheni, i curdi, i libici, gli yemeniti e tanti altri popoli. Mentre i criminali di guerra americani e britannici impartiscono ancora lezioni a tutti, preservati dall’immunità. Ma è proprio questa guerra assurda nel cuore dell’Europa il più grande regalo che ha fatto loro Putin.

C’era una volta la Russia, come c’era una volta la Jugoslavia, disgregata non per le stesse ragioni che oggi occorrono in Ucraina ma che si aggira ancora come un fantasma per l’Europa a ricordare che in Europa potevano esistere Stati multi-etnici e multi-religiosi. La Russia è ancora uno di questi stati ma non deve essere ridotta a uno scheletro dalla sua leadership e dagli eventi.

È per questo che, papa Bergoglio, uno degli ultimi saggi, alza ancora la voce, riflettendo sulle cause della guerra. E lo fa con una frase netta sulle responsabilità. Parla infatti dell’«abbaiare della Nato alle porte della Russia», che a suo giudizio avrebbe spinto Putin a reagire e a scatenare l’inferno in Ucraina: «Un’ira che non so dire se sia stata provocata ma facilitata forse sì».

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