Tutti i perchè, tv e giornali non creano consenso a questa guerra

Guido Rampoldi su Domani 10 maggio
La guerra del consenso: perché i media allineati questa volta non bastano al governo
Per la prima volta nella storia repubblicana un governo alle prese con una grave crisi internazionale non sembra in grado di imporre nel dibattito pubblico una narrazione che corrisponda alle proprie scelte e le giustifichi, come di solito avveniva in passato quando l’Italia affrontava temperie analoghe. Non è un insuccesso di poco conto, e rilevanti sono in prospettiva le possibili conseguenze.

 

Mentre mandiamo cannoni nel Donbass i sondaggi attestano un divario ormai imbarazzante tra la minoranza che ritiene sacrosanto aiutare l’Ucraina a difendersi e la maggioranza che invece si oppone all’invio di armi (‘prolungano il conflitto’): 28 per cento i primi, 58 per cento i secondi (14 per cento gli indecisi), secondo la rilevazione Emg realizzata prima che arrivassero notizie di una piccola controffensiva ucraina in corso.

Altri sondaggi riducono lo scarto ma nessuno mette in dubbio che prevalga e sia in crescita l’opinione di quanti avrebbero lasciato gli ucraini alla mercè degli invasori.

In Europa un risultato di questo tipo ha equivalenti soltanto nelle ‘democrazie illiberali’ come l’Ungheria. E’ tanto più vistoso se si considera che in Italia tutti i principali media (tv di stato e tv private, maggiori quotidiani) sono allineati al governo. La loro inefficacia è un lato del problema.

Chi ha indagato la sproporzione tra i due opposti segmenti di opinione offre spiegazioni poco convincenti. I sostenitori del governo ora chiamano in causa un misterioso lavorio sottotraccia della propaganda russa: ma senza la minima prova.

Più probabile che il nemico sia nello specchio: è stato un format molto italiano, la tv dell’Alterco, a regalare notorietà ai tipi assertivi che adesso si vorrebbe espellere dallo schermo, così offrendo a costoro anche l’aureola del martire.

Dal fronte opposto si saluta l’emergere di una saggezza popolare, ribelle all’informazione manipolata da «una ventina di anchor men, oligarchi nostrani dell’informazione» (così un intellettuale altrimenti acuto, Domenico De Masi).

Se questo fosse vero, se cioè «si fosse messo in moto tra ‘la gente’ un meccanismo di autonoma elaborazione delle informazioni», dovremmo concludere che gli italiani più autonomi sono gli elettori del centro-destra, dato che appunto sono loro, insieme ai pentastellati, ad accusare i media praticare un’informazione pilotata contro Putin (sondaggio Demos).

Eppure proprio quel segmento d’opinione non dimostra “elaborazione autonoma” quando lo si interpella circa questioni come migranti, islam o evasione fiscale.

Forse i suoi convincimenti sull’inattendibilità dell’informazione andrebbero spiegati altruimenti: innanzitutto con le giravolte dei media mainstream, che fino a ieri praticavano visioni del mondo nelle quali Putin e l’ultra-nazionalismo russo non figuravano affatto nella lista dei cattivi.

DOPO LA CRIMEA

Un passo indietro. Sette anni fa, quando Putin si prese la Crimea, il direttore dell’Unità renziana e i giornali della destra sostennero una tesi simile: non c’era da scandalizzarsi, in fondo la Crimea era sempre stata russa.

L’idea che il fondamento della sovranità si trovi nelle profondità della storia (una storia misteriosamente oggettiva anche quando tanti la contestano) commercia con una filosofia politica, il culturalismo, per la quale anche le identità dei popoli sono il prodotto di una storia univoca, stratificata nel corso dei secoli e strutturata dalle religioni. Dopo l’attacco alle Twin Towers, il culturalismo e il vocabolario conseguente (i nostri valori, la civiltà giudaico-cristiana, l’attacco ai nostri standard di vita) furono a lungo egemoni non solo nella destra.

Così l’islamismo risultò il nemico della nostra civiltà, e Putin, sterminatore di fondamentalisti in Cecenia e in Siria, uno che combatteva dalla nostra parte. Mica facile, adesso, convincersi che il presidente russo è il nostro nemico.

Ancor più difficile è gettare nel water l’arsenale concettuale culturalista e accettare che l’equazione “storia (manipolata) uguale identità uguale destino” sia la truffa praticata da Putin e da ogni nazionalismo.

Difficile innanzitutto proprio per quella vasta parte del giornalismo fino a ieri “culturalista”. In un’intervista del 2016 (devo la segnalazione a Daniele Luttazzi) Gennaro Sangiuliano, biografo del presidente russo e oggi direttore del Tg2, racconta Putin come un leader che «difende e rappresenta alcuni valori cristiani che l’Occidente non tutelati adeguatamente, quasi che la Russia sia la Terza Roma».

È «uno dei pochi che fa seriamente la guerra al terrorismo», «un identitario, nemico del politicamente corretto e dello sradicamento che la globalizzazione vuole imporre ai popoli».

Infine: le opinioni pubbliche italiana, tedesca e francese sono consapevoli «che la questione della Crimea è pretestuosa. Questa terra è sempre stata russa».

Nel riferirsi all’opinione pubblica italiana Sangiuliano probabilmente non aveva torto. Putin piaceva a destra e non dispiaceva a sinistra, dove l’eclissi dei diritti umani aveva favorito l’ibridazione del culturalismo con altri filoni di pensiero oggi ‘neutralisti’.

Un certo pacifismo scoprì che i Taliban reprimevano l’amore e l’istruzione delle bambine non per scelta ideologica ma perché impersonavano la “cultura”’ autentica dell’Afghanistan.

Si affermò una geopolitica che da allora ha come orizzonte l’interesse nazionale spiccio e adesso si chiede perché si debbano aiutare gli ucraini. Anche per una questione di valori?

Quella geopolitica non considera i valori rilevanti, se non quando rappresentano un tratto ‘culturale’ (da qui un certo tifo per un’Europa guidata da un asse italo-franco-spagnolo, inteso come «alleanza di popoli apparentati perché romanizzati, culturalmente cattolici e di civiltà latino-occidentale»: così Limes, maggio 2021).

Se aggiungiamo che nella trincea opposta anche i cantori dell’Occidente spropositano culturalismi, non sorprende la scarsa efficacia delle motivazioni liberali con le quali Draghi ha spiegato la scelta di campo a fianco dell’Ucraina.

Ma se la guerra continuerà e imporrà sacrifici agli italiani, il governo dovrà convincere il paese, pena lo sfaldarsi della maggioranza. In circostanze analoghe si sarebbe affidato agli amici nei giornali e soprattutto alla nomenklatura della Rai-tv, a quei conduttori il cui expertise risiede soprattutto nell’antico “sopire, troncare”.

Ma non funziona più. L’influenza esercitata dai grandi quotidiani è precipitata quanto il numero dei loro lettori, e quel che più conta, le tv non sembrano più capaci di spostare consenso.
IL BIVIO PER LA TV
Da qui un bivio ineluttabile. La strada audace, una scommessa: rivoluzionare la Rai-tv e tentare di farne una Bbc, un propulsore di pensiero critico che aiuti a capire dove va la guerra. Controindicazioni: rivolta di nomenklature Rai, consorteria poderosa (insorta perfino contro il tentativo di chiudere un inutile notiziario notturno); maldipancia del ceto politico, d’un tratto privato della sua grancassa; e il venir meno dell’informazione per principio filo-governativa (la Bbc sta rendendo la vita amara a Boris Johnson).

La strada tradizionale: tutti in trincea. C’è la guerra, l’informazione deve arruolarsi, è un’arma, non può dirsi neutrale. Stringiamoci a corte, l’Italia chiamò. Il partito più potente in Rai, il Pd, ha già suonato la tromba dell’alzabandiera.

Un’incauta intervista al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, è diventata un “attentato alla sicurezza nazionale”, come denunciato (“Ora basta!”) dal pd Borghi, componente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

Col che è chiaro che la battaglia dell’informazione sarà assai incerta, la Rai-tv resterà inefficace, la paura di perdere lettori e spettatori renderà ancor più esitanti alcuni direttori, e grandi praterie si apriranno davanti a chi saprà usare la ‘verità’ come una merce. Tra gli altri si candida Byoblu, la tv in streaming, prima un po’ no-vax e ora molto anti-Zelensky (stiamo «diventando quel canale di informazione che abbiamo sempre sognato come Popolo», dichiara il sito).

La tv del Popolo si proclama al servizio delle masse in rivolta, fraseologia interessante per i suoi rimandi involontari a La ribellione delle masse, titolo di un preveggente saggio di Ortega y Gasset pubblicato all’inizio dei fatali Anni Trenta.

La settimana scorsa Byoblu ha trasmesso un raduno pacifista capeggiato da Michele Santoro, uno specialista del ruolo.

Lo ricordiamo nella diretta da Belgrado durante la guerra del Kosovo, quando si domandò se nei piani della Nato vi fosse «il genocidio dei serbi».

Annuirono gravemente i giornalisti serbi che gli stavano intorno, tutti legati al regime di Milosevic, quello che deumanizzò con i suoi media i musulmani di Bosnia e ne fece sterminare ottantamila dalle proprie milizie.

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