Gli Usa non vogliono vincitori, dobbiamo pensare alla Cina. Tirate voi una linea

Lucio Caracciolo La Stampa 04 Giugno 2022
Guerra senza vincitori: gli Stati Uniti non vogliono una Russia disfatta e instabile
Ma non possono permettere che si prenda mezza Ucraina
Sarà Kiev, integrata a Ovest, a stabilire i suoi nuovi confini.
Nessuno vince. Né al grado strategico, che vede Russia e Stati Uniti duellare per procura contro e per l’Ucraina, né su scala continentale, dove si tratta solo di stabilire quanto più instabili, impoveriti e insicuri diventeremo noi tutti.

 

Sarà interessante constatare quanto dell’impegno morale che abbiamo assunto verso il Paese aggredito resterà dopo il silenzio delle armi.

Quanto allo scontro strategico Usa-Russia, premessa d’obbligo.
Come definitivamente dimostrato quasi settant’anni fa dal presidente Dwight “Ike” Eisenhower nell’esercitazione strategica segreta Solarium Exercise, peggio della sconfitta nella guerra contro Mosca c’è solo la vittoria. Perché gli americani rifiuterebbero di accollarsi il colosso atterrato. Cos’altro significherebbe assumersi la responsabilità della Russia se non gravame geopolitico, economico, identitario, che volgerebbe gli Stati Uniti in caserma del mondo? “Ike” verbatim: «Che cosa ne faremmo della Russia, se vincessimo in una guerra globale?». Svolgimento: la «vittoria» totale produrrebbe «una grande area devastata e distrutta dall’Elba a Vladivostok e giù attraverso l’Asia del Sud-Est, senza governo, senza comunicazioni, solo uno spazio di fame e disastro. Io vi chiedo, che ne farebbe il mondo civile?». Domanda oggi meno astratta di ieri.

Di qui le voci che nell’establishment a stelle e strisce avvertono dei rischi derivanti dalla tentazione di farla finita con la Russia. Nella sintesi di Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations: «Gli Stati Uniti e i loro partner devono definire e anzi limitare i loro obiettivi in Ucraina. Ciò significa smettere la chiacchiera sul cambio di regime a Mosca. Dobbiamo occuparci della Russia che abbiamo, non di quella che preferiremmo». Nella volgarizzazione del neotrumpiano J. D. Vance, autore della memorabile Hillbilly Elegy, oggi candidato al Senato: «Penso sia ridicolo fissarsi sul confine dell’Ucraina. Devo essere onesto con voi: non me ne importa proprio nulla di quel succede in Ucraina, in un senso o nell’altro».
Per il Numero Uno impegnato in vitale competizione con la Cina, il conflitto ucraino viene dopo. La recente tournée asiatica di Biden, con quel “sì” lasciato cadere alla domanda se Taiwan sia sotto protezione militare americana, ha accelerato la dinamica della collisione. Sicché gli strateghi americani vedono nel prolungamento della guerra in Ucraina più problemi che vantaggi. Li preoccupa la prospettiva di doversi impegnare nuovamente nella stabilizzazione dell’Europa che dopo la vittoria nella guerra fredda presumevano «fixed», compattamente inquadrata nel sistema americano. Nei laboratori d’intelligence si cominciano a temere le conseguenze impreviste quanto prevedibili degli allargamenti a gogò, nella nobile gara fra braccio militare (Nato) e geoeconomico (Ue) dell’informale impero europeo dell’America a chi pianta prima la sua bandiera nelle terre adiacenti al Cremlino.

Più ampio il fronte, più impegnativo proteggerlo, più facile l’infiltrazione nemica, sia russa o cinese. E meno credibile il favoloso ombrello cantato nell’interpretazione demotica dell’articolo 5 del Trattato di Washington, che non garantisce un bel nulla. Nel prossimo vertice Nato di Madrid Biden vorrà assegnare a britannici, polacchi e baltici la vigilanza avanzata sul fronte russo, senza impegnare troppi mezzi e truppe a ridosso della cortina d’acciaio – versione aggiornata della classica linea rossa Stettino-Trieste, solo molto più a Est e a Nord. Così Washington si espone al rischio che la provetta sezione antirussa del suo impero europeo lo costringa allo scontro diretto con Mosca.

I confini fra Ucraina e Federazione Russa non valgono per Washington la terza guerra mondiale. E la scomparsa della Russia metterebbe in questione il senso della Nato, inventata per contenerne la minaccia. Allo stesso tempo, lasciar troppo spazio ai russi e tradire gli ucraini sarebbe macchia incancellabile sul marchio America. Ognuno ha le sue alternative del diavolo.

Quanto al teatro bellico. Il risorgimento ucraino scrive le sue pagine di gloria. Zelensky superstar in Occidente. La Storia riconoscerà ai suoi combattenti di aver violato il dogma d’invincibilità del soldato russo. Di aver esposto al mondo la facciata di cartapesta della presunta superpotenza, maschera di abissali fragilità, come nei leggendari villaggi Potëmkin. Ma la liberazione del Donbas, se mai possibile, è lontanissima. Forti concentramenti di truppe ucraine sono accerchiati dai russi. In Ucraina orientale e meridionale lo scontro è aperto. Spetterà poi a Zelensky e a Putin vestirlo di gloria in simmetria indifferente ai fatti. Comunque finisca.

Non deve perciò stupire che della vittoria a Kiev si dipingano versioni cangianti, aggiornate in base a speranze o disillusioni prodotte dalle battaglie in corso e dal variabile supporto esterno. Si insiste sulla questione territoriale: rivogliamo i confini del 1991, quelli tracciati come amministrativi in età sovietica, volti in internazionali grazie al crollo dell’Urss. Ipotesi possibile solo in caso di collasso della Federazione Russa. Altrimenti occorrerà tracciare una linea provvisoria che corra da qualche parte nell’Ucraina Sud-orientale, baluardo dei filorussi. Essenziale per Kiev è l’integrazione di fatto nell’impero americano. Travestita da neutralità protetta, attraverso nuove inventive strutture capaci di rispondere nelle ventiquattr’ore a eventuali incursioni russe.

Dalla Nato Zelensky è deluso. Ne lamenta dilazioni burocratiche e baruffe intestine, sintomo di incompatibilità culturali e geopolitiche. Tutte le armi dei sostenitori atlantici sono arrivate a Kiev via intese bilaterali, particolarmente battagliate con i soci più importanti, tedeschi in testa. Non fosse per americani e britannici, i russi avrebbero conquistato almeno mezza Ucraina. Per questo qualcuno a Mosca imputa a Putin non di aver attaccato, ma di averlo fatto troppo tardi.

Con il lungo armistizio, condizione per l’avvio della ricostruzione di un territorio devastato, l’Ucraina dovrà affrontare le questioni irrisolte che si trascina dall’indipendenza: dalla corruzione allo strapotere degli oligarchi, che hanno succhiato il sangue della patria per trent’anni ma non rinunceranno a rientrare in partita, fors’anche a chiudere i conti in sospeso con Zelensky (il suo non troppo ex rivale Petro Poroshenko lo promette pubblicamente).

La maggiore preoccupazione strategica per Kiev riguarda però la faglia che nella Nato separa la Nuova dalla Vecchia Europa. Gli amici sicuri da quelli apparenti. Sulla cui intelligenza col nemico Zelensky ha pochi dubbi. Il suo incubo per il dopoguerra è l’inaffidabilità del massimo attore europeo, la Germania. Potenza continentale con cui l’Ucraina avrà a che fare per il resto dei suoi giorni.

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