Ed ora Letta unisca Conte Calenda e Renzi. Il programma lo fa Repubblica

Francesco Bei Repubblica 14 giugno 2022
Amministrative, la strada obbligata del centrosinistra
L’aver consolidato il suo primato assegna al Pd una responsabilità in più, quella di far dialogare due aree che finora si sono soltanto prese a sassate

 

A volte, nella vita, è più difficile gestire i successi rispetto alle sconfitte. E non c’è dubbio che queste amministrative, per il Partito democratico, siano una quasi vittoria, almeno a livello di lista. Il Pd è il primo partito d’Italia e i candidati che ha sostenuto ottengono buone affermazioni da Nord a Sud, con le eccezioni rilevanti di Genova e Palermo.

Il partito di Enrico Letta si conferma dunque l’unica infrastruttura politica nazionale al servizio di una certa idea di Italia, un architrave su cui costruire un’ipotesi di governo politico alternativo a quello che proporrà il centrodestra. Ma qui viene il difficile. Proprio il caso siciliano, con la secca sconfitta di Franco Miceli nonostante gli sponsor imbarazzanti del neo eletto Roberto Lagalla, offre lo spunto per capire quali sono i rischi e i pericoli generati da questa tornata amministrativa.
È chiaro che la prima opzione strategica fin qui perseguita dal Pd, ovvero quella di un dialogo esclusivo con il Movimento Cinque Stelle, non basta più. Semplicemente non funziona, anche perché il M5S del 2022, nonostante gli sforzi di Giuseppe Conte, è una forza politica con percentuali ormai a una sola cifra. La logica, se non si vuole regalare il Paese ai sovranisti, agli amici di Putin, alle forze anti europee, è allora quella di un’unione che tenga conto della complessità e della pluralità del centrosinistra, dei suoi diversi attori e delle loro diverse sensibilità.

Un’altra strada, con questa legge elettorale, non esiste. Ma il discorso vale anche, anzi soprattutto, per i cosiddetti centristi, ovvero quella sinistra liberale che si sta strutturando accanto, e a volte contro, il Pd. Fanno bene Calenda e Della Vedova a gioire per i risultati buoni, anzi ottimi, dei loro candidati da L’Aquila a Parma fino a Palermo. Il problema è che Fabrizio Ferrandelli, l’uomo sostenuto da Azione e +Europa a palazzo delle Aquile, finiti i brindisi e i festeggiamenti per il suo 14%, ha poi dovuto riconoscere la vittoria di Lagalla e dei suoi amici Cuffaro e Dell’Utri.

La lezione è semplice: se l’area centrista, da cespuglio irrilevante diventa ora una pianta forte e robusta, non può evitare il tema di un accordo preventivo con il Pd e i Cinque Stelle. Pena la vittoria del campo avverso e l’approdo di Giorgia Meloni a palazzo Chigi. È la dura legge del Rosatellum, non si scappa.
Allo stesso modo, Giuseppe Conte, che ha una cultura e una formazione da cattolico democratico, dovrebbe archiviare una volta per tutte la stagione della ambiguità dell’ultimo M5S e ricominciare a fare politica recuperando lo spirito nazionale e repubblicano dei primi, duri, mesi della pandemia. Quelli gestiti da palazzo Chigi tenendo unito un Paese terrorizzato.

Il controcanto continuo a Draghi, del resto, non ha portato i cinque stelle a recuperare consensi. Anzi. Non sarebbe sbagliato se, da quelle parti, si procedesse a una seria analisi post-elettorale, avendo come obiettivo dei mesi che ci separano dalle Politiche la costruzione di una piattaforma politico-programmatica da discutere insieme agli alleati, per poi presentarla agli italiani. Non le 280 pagine del programma dell’Unione di Prodi, ma una decina di punti comprensibili e credibili.

E qui si torna al Partito democratico. L’aver consolidato il suo primato gli assegna una responsabilità in più, quella di far dialogare due aree che finora si sono soltanto prese a sassate. Il ruolo baricentrico del Pd impone a Letta di fare da arbitro e facilitatore di questo dialogo possibile, fischiando anche i falli. È ora di finirla con i veti, il tempo stringe, e Letta lo deve far capire a Conte, a Calenda e a Renzi.

Paradossalmente i risultati delle amministrative, abbassando un po’ il M5S e irrobustendo i centristi, hanno portato a un riequilibrio di forze che potrebbe dare stabilità a una futura coalizione. Ma si tratta di costruirla dal nulla tra forze che si sono duramente contrapposte fino a ieri. Un compito improbo e tuttavia indispensabile.

A meno di non dare già ora per persa la partita e consegnare l’eredità di Draghi a una delle destre più estreme dell’Unione europea, una destra che guarda a Orbán come alleato e conta sul ritorno alla Casa Bianca del golpista Trump.

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