Stefano Montefiori Corriere della Sera 20 giugno 2022
Mélenchon, il «Chávez di Francia» non governa, ma dà filo da torcere a Macron
Da sempre schierato a sinistra, il tribuno della gauche francese è anticapitalista e terzomondista. Ma condanna la Russia e adegua le sue battaglie ai tempi: così ha rivitalizzato la sinistra (e insidiato l’Eliseo)
Ci sono voluti il carisma e gli scatti di follia di Jean-Luc Mélenchon per riuscire nell’impresa di rivitalizzare la sinistra francese data per defunta. Certo la gauche di Mélenchon non è quella socialista dei presidenti Mitterrand e Hollande, o della sindaca parigina Hidalgo col suo imbarazzante 1,7% alle ultime presidenziali. La sinistra di Mélenchon è di rottura, un vetero-anticapitalismo più vicino a Jeremy Corbyn che al New Labour dell’odiato Tony Blair, una sinistra che predica la fine del neoliberismo (anche se la Francia è uno dei Paesi meno neoliberisti al mondo) perché «ormai è dimostrato, non funziona da nessuno parte», una sinistra più di lotta che di governo e infatti Mélenchon non governerà, non sarà premier e non avrà la maggioranza parlamentare, nonostante per settimane abbia proclamato con certezza il contrario.
Però se nella scorsa legislatura Mélenchon è riuscito a dare filo da torcere a Macron con appena 17 deputati della France Insoumise, gli oltre 150 della coalizione Nupes che entrano adesso all’Assemblea nazionale promettono di trasformare il parlamento in uno spettacolo. Mélenchon ha ormai resuscitato non solo la sinistra ma anche l’opposizione, l’Assemblea nazionale, insomma il dibattito democratico. I detrattori accusano il «Chávez gallico» di volere trasformare la Francia in un Venezuela senza petrolio, e non gli perdonano le passate critiche all’Ucraina e l’ammirazione per la Russia di Putin, vista come un baluardo contro l’imperialismo americano.
Mélenchon è un sognatore terzomondista innamorato dell’America latina, profondamente anti-Nato, che fino a qualche mese fa riesumava formule anni Settanta per auspicare una Francia «non allineata». Diventa capo dell’opposizione proprio nel momento in cui l’Europa e l’Occidente ritrovano unità e slancio nell’opporsi agli orrori di Putin. Ma quanto Mélenchon si infervorava contro l’Ucraina, «questo Paese che trova così difficile essere tale», tanto allo scoppio della guerra ha saputo fare totale marcia indietro. «C’è un unico colpevole, un unico aggressore, la Russia di Putin», ha detto il leader della Nupes con la stessa passione con la quale prima lodava il Cremlino.
A Mélenchon si lasciano passare cose imperdonabili per altri. Contravviene a tutti i codici della politica contemporanea: burbero e iracondo, è capace di urlare «La République sono io!» in faccia ai poliziotti venuti a perquisire la sede del partito, ma anche di rifiutare i selfie ai fan per strada o di gridare «Non mi toccate!» agli elettori troppo affettuosi alla fine di un comizio. Altri verrebbero tacciati di maleducazione, lui ne fa una virtù, un segno di sincerità.
Con energia e disposizione al compromesso ha fondato una Nuova unione popolare ecologista e sociale che ha finito per trovare sostenitori insospettabili. Per esempio Raphael Glucksmann, eurodeputato e intellettuale di sinistra, una vita a denunciare i regimi totalitari di Mosca, Pechino e Damasco e a difendere le ragioni dell’Europa. Glucksmann ha spiegato di avere «divergenze immense» con Mélenchon, ma ha dato comunque il suo appoggio alla Nupes «per lottare contro le diseguaglianze crescenti».
Già appezzato ministro dell’Istruzione professionale (2000-2002) all’epoca del premier Jospin, Mélenchon è rimasto sempre fedele alla sua idea di «sinistra forte». Lui non si è spostato, è la Francia che dopo mille evoluzioni oggi ritrova in lui, 70enne adorato dai giovani, il leader da opporre a Macron.
Gli attacchi degli avversari macronisti hanno ricordato talvolta i toni da «pericolo rosso» che accompagnarono l’avvento di Mitterrand all’Eliseo nel 1981, quando non pochi francesi — tra i quali il futuro uomo più ricco d’Europa, Bernard Arnault — ripararono all’estero. Mélenchon ha riso di questi paragoni, e ha protestato contro una democrazia bloccata «dove l’unico voto rispettabile è quello per il potere». A lungo deriso, il tribuno nato a Tangeri manca l’obiettivo della poltrona da premier — al quale forse non credeva davvero neppure lui — ma centra quello di rendere a Macron la vita difficile per i prossimi cinque anni.