La scissione dei due mandati (con prenotazione al partito del Draghi senza Draghi)

Francesco Bei Repubblica 22 giugno 2022
Di Maio, uno strappo causato dal limite del doppio mandato
Scissione 5Stelle, il ricatto di Conte sulla ricandidatura


Dunque ci siamo. Annunciata per settimane nei retroscena dei giornali, finalmente arriva la scissione della componente dimaiana dei Cinque Stelle. La prima riflessione da fare è che, davvero, non si capisce quale sia la ragione politica dietro questo strappo. Ovvero, si capisce benissimo che Luigi Di Maio, e con lui i senatori e deputati che hanno scelto di seguirlo, erano sottoposti da parte di Giuseppe Conte al ricatto della ricandidatura. Nel mondo senza regole dei grillini, un movimento nato rivendicando un non-Statuto, dove agli inizi si poteva essere espulsi via mail da un fantomatico “staff” senza sapere nemmeno a chi appellarsi, tutte le norme sono state piegate nel tempo alla convenienza del momento. Così ora Di Maio & friends, avendo già il capo poggiato sul ceppo del secondo mandato, esposti alla graziosa benevolenza del capo politico, hanno deciso di ribellarsi. Comprensibile che, non avendo ricevuto garanzie di ricandidatura, abbiano deciso di tagliare la corda prima che fosse troppo tardi. Tutto legittimo, per carità, primum vivere.
Si può semmai fare un facile pronostico sulla durata di questo esperimento politico di fine legislatura, andando a ripescare i non fortunati precedenti dell’Udr (poi Udeur) o del Nuovo centrodestra di Alfano, due formazioni fra le tante nate per scomposizione di ceto politico-parlamentare a sostegno di esperienze ministeriali: l’Udeur di Mastella a favore del gabinetto D’Alema, l’Ncd di Alfano per tenere in piedi il governo Letta. Entrambe evaporate al mutare delle circostanze politiche. Vicende del passato non troppo dissimili da quella odierna, con il corpaccione M5S che si allontana ogni giorno di più da Draghi e la piccola pattuglia dimaiana che si schiera a falange a guardia di palazzo Chigi.

A cambiare tuttavia sono le condizioni esterne. Con una guerra che infuria ancora alle porte dell’Europa, il fatto che oggi tutta l’attenzione sia per gli scissionisti del M5S dà la misura della fragilità interna della grande maggioranza Draghi, estesa come non mai ma estremamente vulnerabile. Un po’ come la Invincibile Armada di Filippo II, potentissima sulla carta ma poi decimata da ripetute tempeste. Luigi Di Maio, a cui si deve dare atto di aver compiuto un travagliato percorso di maturazione personale su tutti i fronti, dal garantismo all’europeismo, sembra aver scelto male sia i tempi e che l’occasione politica per lanciare la sua creatura. I greci lo chiamavano Kairòs, il tempo opportuno.

La posizione del partito di Conte sulla guerra non è infatti, in questo passaggio, molto diversa da quella di Leu o di altri settori del Pd (cattolici e sinistra) più attenti a cercare una via per la pace. Certamente non tale da giustificare una scissione così sanguinosa. I parlamentari che, sotto sotto, la pensano come Vito Petrocelli, pur presenti ancora nei gruppi M5S, hanno provato a condizionare la redazione di un documento che impegnasse Draghi a presentarsi ogni volta in Parlamento in caso di nuovi invii di armi all’Ucraina. Ma sono stati messi in minoranza e respinti già durante il week end. Di Maio non poteva non saperlo. Per questo, in attesa di conoscere i nomi degli scissionisti e le ragioni ufficiali della rottura, non si può fare a meno di notare un certo tasso di strumentalità in tutta questa vicenda.
Che Di Maio e Conte non si sopportassero più era arci-noto da tempo. E le ragioni, come sempre, hanno radici intricate, nutrite di risentimenti personali, dissensi politici, ambizioni frustrate, traiettorie non conformi. Che tutto questo dovesse precipitare in una scissione guidata dal ministro degli Esteri, a guerra in corso, era meno scontato. E forse se ne sarebbe potuto fare a meno.

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