Dal corridoio di Danzica al corridoio di Kaliningrad: così nascono le guerre.

Domenico  Quirico La Stampa 23 Giugno 2022
Kaliningrad, la nuova Danzica pretesto per la guerra totale
L’isolamento dell’enclave sul Baltico dà a Putin una nuova occasione, la meno russa di tutte le città diventa il fronte da salvare a tutti i costi

Kaliningrad, eccola pronta la Danzica di Putin. Se l’autocrate di Mosca scatenerà la Terza guerra mondiale il pretesto lo troverà qui, non nel Donbass o in Crimea. In questo frammento di seconda guerra mondiale, in quella che era la Koenigsberg di Kant e degli splendori dell’impero guglielmino. Nel genocidio toponomastico russo è stata intitolata a un eroe della rivoluzione d’Ottobre e zelante servitore dei tempi staliniani, diventando per i lunghi anni della guerra fredda una città proibita perché afflitta da basi navali e stabilimenti della industria militare, poi tagliata fuori da chilometri di Lituania e di Polonia. Il nome bolscevico è rimasto, perché questa città è per sempre Unione Sovietica.

Ora una malaccorta, sciagurata decisione del governo di Vilnius (ma è possibile che sia soltanto sua, che abbia osato da sola?) ha bloccato il collegamento e l’ha isolata da Mosca offrendo un pretesto perfetto a Putin. Come la città baltica tagliata fuori dalle scempiaggini della pace di Versailles la offrì all’ennesimo, e quella volta fatale bluff di Hitler. Con le parole con cui Marx e Engels iniziarono «Il manifesto dei comunisti» si può mormorare «uno spettro si aggira per l’Europa». Dal corridoio di Danzica al corridoio di Kaliningrad: così nascono le guerre.

Sono stato a Kaliningrad nel 1998, un terribile, denso oceano da cui nessuno poteva tirarti fuori. La tomba di Kant era sempre lì, appoggiata alla cattedrale trecentesca ancora sventrata dalle bombe della Seconda guerra mondiale e dal furioso assedio dell’Armata rossa. Accanto c’era l’ex palazzo dei Soviet, un mostro cadente e arrugginito a cui i genieri russi fecero spazio con tonnellate di esplosivo necessarie per sventrare il palazzo reale. Era costato otto miliardi e settecento milioni di rubli degli Anni Sessanta, ma non è mai stato completato. Anche se le brochures dell’Inturist lo esaltavano come «un miracolo del cubismo sovietico».

Simboli e segni di una storia infausta: perché Kaliningrad è fisicamente una delle eredità maligne della seconda guerra mondiale e del disastro dell’Ottantanove sovietico. Era in quella tarda età eltsiniana che si preparava a scivolare in quella di Putin, al volgere del millennio, un monumento al disfacimento economico, politico, sociale, la prova di quanto male in termini di avidità e scempiaggine avevano lasciato i dieci anni di economia in caduta libera. Tutto si rarefaceva, appassiva, cadeva a brandelli.
Nulla era russo qui. Nessuna memoria, eredità, mitologia. decine di migliaia di tedeschi che abitavano in città fuggirono quando le truppe sovietiche cancellarono quella che si chiamava la Prussia orientale. Fuggirono su navi stipate all’inverosimile, in un esodo infernale, braccati dalle cannonate. Stalin realizzò uno dei suoi capolavori nelle manipolazioni da autocrate, vi trapiantò 300 mila russi, contadini prelevati con tartara disinvoltura nelle zone più devastate dalla guerra. Che occuparono case, terreni, negozi, fattorie.

Quando la attraversai lunghe file di anziani tedeschi sbarcavano all’aeroporto e su autobus rantolanti come il comunismo che li aveva costruiti, visitavano la città, la loro città. Erano i tedeschi che, bambini, erano fuggiti su quelle navi disperate e ora, annientata l’Urss, tornavano per un patetico, straziante turismo della nostalgia. Cercavano le vecchie case sciupate dall’incuria, portavano regalini ai loro nuovi padroni per invogliarli a farli entrare per qualche minuto nelle stanze di quello che un tempo era stato loro. Correvano voci incontrollate, allora, che la ricca Germania, approfittando della bancarotta russa, avesse intenzione di comprare la città, ribattezzarla di nuovo Koenisberg e ricostruirla come era a colpi di marchi, trasferendovi in un gioioso e capitalistico contrappasso, i tedeschi del Volga che Stalin nella sua geografia delle deportazioni aveva spedito in Asia centrale. Non era forse un segnale che il cancelliere Kohl avesse regalato alla città coloratissimi cestini per la raccolta differenziata dei rifiuti? Dopo poco sparirono e finirono bruciati nella consolidata abitudine russa di dar fuoco alla immondizia. Di quel baratto non si parlò più anche perché stavano arrivando i tempi ruvidi della rivincita putiniana.

Nelle pietose bugie del termidoro eltisniano Kaliningrad doveva diventare la Hong Kong russa, una sorta di zona economica speciale. Invece fu il cuore della sua miseria. Il cinquanta per cento della popolazione era senza lavoro, migliaia di prostitute fameliche presidiavano le strade ad ogni ora del giorno e della notte e le statistiche dell’Aids ponevano la città su soglie africane. Anche metà della flotta del Baltico risultava sieropositiva. i colleghi di Putin nel nuovo Kgb parlavano, ovviamente, di un perfido attentato batteriologico dell’Occidente alla purezza sessuale russa.

Esisteva una sola economia, quella illegale in mano alle mafie, che almeno quella, funzionava benissimo. Enormi depositi di auto raccoglievano quelle rubate in mezza Europa. Metà dell’ambra, per cui questa zona del Baltico era celebre già al tempo dei vareghi, spariva dalle statistiche venduta di contrabbando in Polonia e in occidente, come la vodka e i generi alimentari approfittando della assenza di dazi. Si mormorava di un movimento indipendentista disgustato dalla indifferenza della remota capitale proprio per una terra conquistata con il fucile in mano. Il direttore di un giornale che denunciava il malgoverno e i briganti travestiti da uomini d’affari del nuovo capitalismo russo, fu aggredito da un killer che lo ridusse in fin di vita. L’epoca preparava, come si vede, nell’informazione il vizio dei tempi putiniani.

Qui la tecnica dell’ex spia divenuto zar di speculare sulla rabbia e la frustrazione che quei tempi sciagurati avevano generato ha funzionato facilmente. A dimostrazione che è la perdita di dignità che ha effetto sulla fantasia e non la sempre imperfetta idea del dolore. Questa è una Russia arbitraria, artificiale, frutto di una deportazione e di una occupazione. In fondo il contrario di quella dei russofoni «irredenti» del Donbass che è servita come pretesto per la prima fase della guerra. Non ci sono minoranze ostili, i russi, soprattutto quelli di una certa età, si sentono in questo clima di nuova guerra fredda che cresce, sentinelle isolate in un avamposto sopravvissuto incredibilmente alla Storia.

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