E’ evidente la profonda crisi democratica del sistema americano

Massimo Gaggi Corriere della Sera 25 giugno 2022
Ritorno al 1973
La decisione della Corte Suprema sull’aborto non è grave solo per le donne ma per lo stesso futuro dell’America


Impossibile non considerare gravissima non solo per le donne americane ma per lo stesso futuro dell’America la decisione presa ieri dalla Corte Suprema. Il rovesciamento della sentenza Roe vs Wade di mezzo secolo fa sull’aborto è la più vasta cancellazione di diritti costituzionali (riconosciuti dalla stessa Corte) della storia: una sentenza che spacca anche fisicamente un Paese estremamente polarizzato. In Missouri la messa al bando è già attiva e altrettanto faranno gli altri 25 Stati a guida repubblicana. Chi vorrà abortire dovrà cercare aiuto negli altri Stati che continueranno ad ammettere l’interruzione della gravidanza. Avremo caos, emergenze sanitarie ed economiche, proteste di massa, rischio di violenze. E Clarence Thomas, uno dei giudici arciconservatori che controllano la Corte, già dice che è ora di intervenire anche sui matrimoni gay e sul diritto alla contraccezione.

In termini politici generali la cosa è anche più grave. Un Paese che ha un disperato bisogno di ritrovare il senso della politica che è dialogo, ricerca di soluzioni comuni facendo prevalere i valori condivisi sulle controversie, sprofonda sempre più nelle guerre culturali: conflitti basati su convincimenti ideologici che rendono pressoché impossibile ricucire i fili di un dialogo democratico.

Appena 24 ore dopo la sentenza che ha cancellato i limiti all’acquisto di armi che sono stati in vigore per 111 anni nello Stato di New York — una decisione che peserà anche su altri Stati Usa e che fa somigliare sempre più l’America a un gigantesco poligono di tiro al bersaglio, con molte più armi da fuoco che abitanti (neonati compresi) — la Corte Suprema ha preso un’altra decisione dagli effetti devastanti: una scelta temuta e anche attesa dopo le fughe di notizie di qualche tempo fa, ma non per questo meno grave.

La cancellazione del diritto ad abortire unisce gli Stati a guida repubblicana alla pattuglia di nazioni, non esattamente le più progredite, che vietano totalmente l’aborto: Honduras, Nicaragua e Suriname nel continente americano, Laos, Filippine e Iraq in Asia, Andorra e Malta in Europa, Egitto, Senegal e Madagascar in Africa.

Un’involuzione che rispecchia la radicalizzazione di una Corte Suprema sempre più ideologizzata, ora in mano a una maggioranza di estrema destra frutto delle scelte fatte da Donald Trump durante il suo mandato e anche dell’inaudito rifiuto della guida repubblicana del Senato di consentire a Barack Obama di nominare un giudice costituzionale durante il suo mandato presidenziale.

Che di involuzione si tratti lo dimostra anche il tentativo, fallito, del presidente della Corte, il repubblicano moderato John Roberts, di arrivare a una sentenza meno estrema. La democrazia americana, claudicante dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio dell’anno scorso e per l’ostinazione con la quale non solo Trump, ma anche buona parte dei repubblicani non considerano legittima l’elezione di Joe Biden, è sempre più a rischio. Dopo le recinzioni del Congresso e della Casa Bianca, nel timore di nuovi attacchi insurrezionali, adesso bisogna fortificare anche la Corte Suprema mentre dopo la moltiplicazione delle minacce di morte nei confronti dei parlamentari, ora tocca ai giudici costituzionali fare una vita blindata.

Venirne fuori non sarà facile e non solo perché tanto le elezioni di mid term del prossimo novembre quanto le presidenziali del 2024 si svolgeranno in un clima tesissimo, con tutti e due i fronti pronti a non riconoscere il risultato del voto. La malattia del sistema politico americano è più profonda e strutturale: è quella che lo storico Simon Schama ha definito ieri «il governo della minoranza». È un problema che gli Stati Uniti si portano dietro fin dalla loro nascita: il riconoscimento agli Stati dell’interno meno densamente popolati, che volevano comunque contare, di un peso che più che proporzionale nel sistema di rappresentanza politica. Fino a quando l’America ha mantenuto, pur fra contrasti aspri, una vasta base di valori condivisi e non ci sono state differenze inconciliabili tra la nazione delle praterie e quella delle metropoli delle due coste, ha prevalso la ragionevolezza e la volontà di democratici e repubblicani di cercare soluzioni comuni o di ridurre, comunque, i contrasti su questioni cruciali che riguardavano soprattutto scelte di tipo economico e di collocazione internazionale del Paese.

Un equilibrio che ha funzionato anche nelle vicende più drammatiche (l’assassinio di John Kennedy seguito da una grande stagione di riforme politiche o il «dimissionamento» di Richard Nixon spinto fuori dalla Casa Bianca anche dai repubblicani dopo lo scandalo Watergate, mezzo secolo fa) si è rotto dapprima durante la presidenza Clinton con l’ascesa dell’ala conservatrice oltranzista di Newt Gingrich, poi con la dura contestazione, anche ideologica, della presidenza Obama e infine con le spallate alle istituzioni repubblicane inferte dalla presidenza Trump.

La cancellazione del diritto di scelta delle donne è grave: costerà sofferenze e vite umane. Ma è altrettanto grave che la Corte Suprema, l’organo più importante del sistema di pesi e contrappesi che dovrebbe garantire il corretto funzionamento del sistema presidenziale americano, abbia perso, agli occhi di almeno metà dell’America, ogni credibilità.

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