Il padre padrone maschio ha ucciso il buono dei figli 5 stelle

Massimo Recalcati  La Stampa 02 Luglio 2022
L’evaporazione della politica
La larghissima astensione elettorale nelle recenti amministrative è solo una delle manifestazioni sintomatiche di un fenomeno che si potrebbe definire “evaporazione della politica”. La stessa lenta dissoluzione del M5S ne è un’ulteriore paradossale espressione.

 

È stata proprio la nascita del M5S a segnalare in modo drastico la crisi comatosa della politica. Ma è stato anche l’errore di fondo di quel movimento: liberarsi dalla politica con l’antipolitica è come provare a essere figli di noi stessi, negare ogni forma di debito simbolico e di continuità storica, sradicarsi dal solo terreno comune possibile, quello, appunto, della vita della polis di cui la politica dovrebbe essere, appunto, custode. Perseguire invece il sogno di una politica liberata finalmente dalla politica significa non comprendere che la fatica della mediazione, del compromesso, della reciproca rettificazione appartiene alla dimensione collettiva della vita. È, paradossalmente, lo stesso fondamentalismo che ha affossato qualche tempo fa con il decreto Zan: invece di raggiungere gli obbiettivi essenziali di una proposta cruciale per la vita civile e democratica del nostro paese, l’insistenza sulla difesa ad oltranza di ogni singolo articolo ha provocato il suo rigetto parlamentare privando il paese reale di una riforma necessaria.
Il M5S, sin dalle sue origini, ha fatto proprio del rigore fondamentalista la sua ideologia cavalcando l’odio verso la politica come arte della mediazione e coltivando l’anti-politica come un ingrediente essenziale del suo populismo. Al tempo stesso, se si vuole provare ad essere giusti con quel movimento, non si può tralasciare che in esso è confluita la vitale esigenza di un cambiamento radicale del nostro paese. È stata la doppia mossa del M5S: fomentare un discredito irresponsabile nei confronti delle istituzioni e delle competenze sostenendo la retorica incestuosa dell’“uno vale uno” insieme al purismo astratto di un rigore fondamentalista; veicolare una ostilità diffusa verso le forme rappresentative della politica che avrebbe potuto assumere toni ancora più estremisti e irrazionali. Ma l’astensionismo elettorale simboleggia una lontananza abissale tra la politica e il paese reale che il populismo grillino voleva ridurre. La sua fine politica accentuerà fatalmente questa lontananza, sarà una causa decisiva dell’evaporazione della politica?

Il rischio è che la politica confermi il ritratto che quel movimento ha caricaturalmente – ma non senza ragioni – proposto: burocrazia, corruzione, assenza di visione, personalismi, privilegi di casta, interessi elettoralistici, carenza di pensiero e di cultura. Diagnosi spietata che non possiamo scansare tanto facilmente: ancora gran parte dei politici di turno guardano il dito che indica la luna, dimenticando la luna. La più parte di loro si prodigano in performances televisive di ogni genere dimenticando il carattere poetico e rivoluzionario che dovrebbe sempre accompagnare l’azione politica. Non le alchimie tattiche ma un vero pensiero strategico, non il piccolo successo elettorale ma il confronto su una visione del futuro e della società, non le schermaglie interne ma il combattimento profondo contro l’ingiustizia sociale e l’abuso anti-democratico del potere. Ma venendo meno l’orizzonte ampio della politica tutto si restringe fatalmente alla ricerca del consenso. Nondimeno, in questa ultima tornata elettorale vi sono stati sindaci – penso, per esempio, a Michele Guerra a Parma e a Damiano Tommasi a Verona – che hanno saputo annunciare un sogno di trasformazione che si è rivelato più forte di ogni tatticismo. In questi casi non è stata premiata la ricerca spasmodica del consenso – per Barbano sindrome detta «consentite» – ma la capacità di guardare oltre, più avanti, di saper disegnare un avvenire differente. Il narcisismo delle piccole differenze che si incarna di volta in volta in piccoli leaders dovrebbe lasciare il posto alla grande politica. Il lutto delle ideologie non coincide affatto con il lutto della politica. Tutto il contrario; proprio perché siamo nel tempo del tramonto delle ideologie, la politica dovrebbe ricuperare in pieno la sua vocazione democratica. Non è però solo una questione di pensiero, ma anche di postura soggettiva. Nel tempo dove la politica tende ad essere sostituita dalle soggettività dei leaders, bisognerebbe considerare che un vero leader è colui che sa fare circolare i discorsi senza calamitarli in modo esclusivo sulla sua persona. Dovrebbe essere qualcuno in grado di fare spazio ad un vuoto centrale che – come accade per il perno vuoto della ruota pensata dai taoisti – rende possibile il movimento generativo dell’insieme. Ci vorrebbe davvero oggi una nuova leadership, autenticamente femminile, rivoluzionaria, poetica, in grado di incarnare davvero questa immagine potente e dinamica del vuoto. Al contrario, la grande politica appare sempre più sequestrata dai piccoli calcoli personalistici. Non a caso l’irreversibile tramonto politico del M5S, seguendo la trama di un film già visto, dovrebbe essere scongiurato dal ritorno messianico del suo padre-padrone poiché i suoi figli non si sarebbero dimostrati all’altezza del compito. Ma in questo caso la responsabilità prima non è dei figli rissosi e incompetenti, ma di quel padre che li ha abilitati ad assumere ruoli senza che questi figli ne avessero inteso il peso simbolico. L’arte della politica, infatti, non può essere ridotta all’immaturità del dileggio, né alla retorica anti-istituzionale del populismo.

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