Crisi delle democrazie, l’aspirina di Cazzullo che rimpiange Johnson

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 09 luglio 2022
Fronte occidentale: il tempo dei leader fragili
Lo conferma la caduta di Johnson. Il sovranismo e il nazionalismo sono una reazione comprensibile ma controproducente al mondo globale; e non mettono nessuno al riparo dal drammatico fenomeno del 2022, l’impennata dei prezzi

 

 

Nella storia britannica, Boris Johnson non è un passante. È l’uomo che ha portato il Regno Unito fuori dall’Europa. La sua caduta sembra confermare che la Brexit non è stata una grande idea. Che il sovranismo e il nazionalismo sono una reazione comprensibile ma controproducente al mondo globale; e non mettono nessuno al riparo dal drammatico fenomeno del 2022, l’impennata dei prezzi. Quasi una famiglia britannica su dieci — l’ha scritto ieri il Guardian — non ha abbastanza da mangiare: non perché manchi il cibo, ma perché il cibo costa troppo, e mancano le sterline per acquistarlo.

Questo non significa che la caduta di Johnson sia di per sé una buona notizia per i sostenitori dell’Europa, del libero scambio, della collaborazione tra i Paesi per affrontare le emergenze globali: la guerra in Ucraina, la pandemia, il riscaldamento del pianeta, le migrazioni, e appunto l’inflazione. La caduta di Johnson conferma anzi che il fronte occidentale è più che mai fragile. Come sono fragili le varie leadership.

A Parigi Emmanuel Macron è appena stato rieletto, ma non ha conquistato la maggioranza assoluta in Parlamento, e ha davanti a sé cinque anni difficili. A Berlino Olaf Scholz non ha sicuramente l’esperienza e probabilmente neppure la statura di Angela Merkel. A Madrid il socialista Pedro Sanchez si è visto per la prima volta superare nei sondaggi dalla destra popolare, che però non avrebbe la maggioranza assoluta neppure con gli estremisti di Vox.

A Washington Joe Biden si avvia verso una disastrosa sconfitta alle elezioni di mid-term a novembre, con probabile rinuncia alla ricandidatura, senza che i democratici abbiano un leader pronto e senza che i repubblicani riescano a liberarsi del fantasma di Trump.

Poi c’è il caso italiano. Un premier molto stimato in ambito internazionale fatica a tenere insieme la sua maggioranza; anche perché la campagna elettorale di fatto è già iniziata, l’unico partito di opposizione è il primo nei sondaggi, leghisti e grillini minacciano di far saltare tutto. Forse sarebbe già accaduto, senza la guerra in Ucraina; cui Johnson si era aggrappato con tutte le proprie forze, nella speranza che potesse puntellare una premiership pericolante. Non è andata così.

In queste condizioni, le parole di Putin — «in Ucraina abbiamo appena iniziato» — possono suonare come una sinistra smargiassata; ma ci ricordano pure che, se è sempre difficile misurare il consenso di una dittatura, è sempre facile misurare il consenso di una democrazia. E in Occidente la democrazia rappresentativa, nelle sue varianti — presidenziale o parlamentare, liberale o socialdemocratica — non è mai stata così sotto attacco. La pandemia e la guerra possono suonare un richiamo all’ordine; ma il segno del nostro tempo resta la rivolta contro l’establishment, contro le élites, contro il sistema.

Al di là delle bizzarrie del personaggio, Johnson aveva tentato proprio questo: incanalare l’ondata populista nell’alveo della politica tradizionale, del partito conservatore, della propria personale fortuna. E finora gli era andata bene. Boris era sindaco di Londra, la città più globale d’Europa. Ma aveva un rivale, fin dai tempi dell’adolescenza a Eton: David Cameron, allora primo ministro. Quando Cameron rinegoziò il rapporto di Londra con l’Europa e lo sottopose a referendum, Johnson scommise sul no. Vinse la scommessa, sottrasse la vittoria a Nigel Farage — vero antisistema, allora alleato di Grillo a Bruxelles —, fece il ministro degli Esteri della scialba Teresa May, divenne premier, e stravinse le elezioni del dicembre 2019 con lo slogan «Get Brexit done»: abbiamo voluto la Brexit; ora facciamola.

Parliamoci chiaro: Johnson non è caduto per la gestione della pandemia — alla fine il temerario Regno Unito ha in proporzione meno morti della rigorista Italia —, né per il protagonismo sull’Ucraina — giudicato anzi coraggioso da una parte dell’opinione pubblica —, né tanto meno per le proprie bizzarrie. La vita privata disordinata, i party, i collaboratori sbagliati sono storie che — quando il leader, il partito, il governo sono in salute — scivolano via. Diventano fatali quando le cose vanno male. Johnson è apparso inadeguato agli stessi conservatori. Che però non hanno un erede pronto. A conferma che la rivolta contro le élites non ha migliorato le élites.

Il declino delle leadership è anzi uno dei segni del nostro tempo. Dove sono le Thatcher e i Blair, i Kohl e le Merkel? A prescindere dagli errori — la poll tax e la guerra in Iraq, i fondi neri della Cdu e la scarsa generosità con gli alleati europei —, quelli erano primi ministri, quelli erano cancellieri. Adesso i leader sembrano fungibili. Sarkozy rischia la galera, Hollande è ricordato solo per i suoi amori. Difficilmente Scholz aprirà un’era. L’altro ieri toccava a Cameron, ieri alla May, ora a Johnson, domani chissà; la regina Elisabetta seppellisce politicamente un altro premier, ma neppure lei è eterna. In Italia, un Paese che veleggia spensieratamente verso i tremila miliardi di euro di debito pubblico, vedremo se e chi potrà fare meglio di Draghi.

Resta un dato: il populismo sta ritrovando vigore grazie alla ripresa dell’inflazione, alla corsa dei prezzi del gas, del carburante, del cibo, delle materie prime, all’impoverimento del ceto medio, alla disperazione delle classi popolari. Un tempo il dramma era la disoccupazione; ora sono i lavoratori poveri. O i governi in carica riescono a fermare la speculazione, senza aumentare le tasse sugli onesti e senza caricare di altro debito le generazioni future; altrimenti faranno la fine di Johnson. E sui tormentati confini orientali d’Europa si allungherà ancora di più l’ombra di Putin.

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