Se si rompe il rapporto tra l’uomo e la terra

Maurizio Maggiani La Stampa 13 Luglio 2022
Vogliamo solo salvare noi stessi, della Terra non ci importa niente
L’unica vita a cui attentiamo, senza rendercene conto, è sempre e soltanto la nostra. Non servono utopie e rivoluzioni globali: è l’ora di estirpare la malvagità che ci anima


Di cosa parliamo in verità quando parliamo di salvare la Terra, o almeno rammendarla come dice l’architetto Piano? Parliamo di noi, di noi e soltanto di quel poco che non siamo noi ma della Terra ci riguarda perché ci è necessario per salvarci, rammendarci. Potenti quanto siamo, e stupidi, e crudeli, la potestà di dannare il pianeta non ce l’abbiamo; anche a mettere assieme tutta la forza distruttiva di cui siamo capaci, non sarà che una pallida imitazione delle collisioni celesti del Devoniano o degli immani sconvolgimenti del Triassico. Basta che tra poco, al tramonto dia un’occhiata ai campi qui attorno per capirlo anche con il mio corto sguardo di campagnolo; arriveranno a milioni i piccoli grilli verdi che non si erano mai visti, ogni sera sempre di più e sempre più vivaci, dopo che per decenni i contadini hanno sparso di tutto per far fuori i loro cugini e i parenti alla lontana, questi allegri grilletti sino invincibili, e se anche si riuscirà a sterminarli, arriveranno altri parenti. No, quando parliamo di salvare la Terra pensiamo a salvare noi stessi, perché l’unico vero potere che possiamo esercitare sull’universo si compendia nel suicidio di specie, distruggere ciò che della Terra ci è necessario per vivere e prosperare come specie; certo, possiamo assassinare diverse altre specie, possiamo desertificare, estinguere ghiacciai, ma la vita a cui attentiamo è la nostra, la catastrofe risolutiva è noi che chiama. Diciamo che dobbiamo salvare il Pianeta perché ci fa un po’ vergogna dire che c’è da salvare noi stessi; e facciamo bene a vergognarci, niente di ciò che agiamo ci dice che è nostra intenzione salvarci, e per quei cuori in cui ancora risuona il battito dell’imperativo morale, non è affatto detto che ce lo meritiamo. Meglio dunque convincerci di essere deliziosamente generosi nei confronti del mondo intero, che riesumare un naturale, ovvio egoismo di specie che abbiamo sepolto da qualche parte, là dove non può disturbare l’egoismo degli individui, l’interesse dei gruppi, le necessità delle nazioni.

È un pezzo che non circola più la parola umanità, l’eredità più preziosa del meglio che siamo stati, ma se avessimo la forza di pronunciarla ancora, di sentire pronunciarla e capire che senso ha, che ragione ha, forse ci sarà possibile fare l’unica cosa che ci compete, che ci dovrebbe obbligare. Rammendare l’umanità per salvarla, rammendare ciò che dell’umanità abbiamo disfatto, e solo così potremo rammendare la parte della Terra che abbiamo disfatto, la parte che ci ha dato vita e che in vita può ancora tenerci.

Rammendare l’umanità, non rattopparla, che non serve a niente se non per illuderci di tirare avanti ancora po’, ma rimetterla a nuovo. L’umanità nuova, una follia, eppure, anche solo andando per esclusione, l’unica cosa ragionevole. Perché è il sistema che abbiamo edificato che è irragionevole, che è vera follia, comprovata, misurata e verificata. È il sistema che ci tiene legati, asserviti alla promozione della distruzione. Un sistema malvagio, e non sto citando il principe Bakunin, ma una fonte addirittura più estrema, e per i credenti anche assai più attendibile, il libro della Sapienza: Ricordate, Dio non ha creato la morte e non vuole la morte degli uomini. Ha creato le cose perché esistano; le forze presenti nel mondo sono per la vita e non hanno in sé nessun germe di distruzione. Sulla terra non sarà della morte l’ultima parola. I malvagi invece aprono alla morte la porta di casa, la chiamano e la invitano a venire, la credono amica e spasimano per lei. Arrivano a fare un patto con lei e meritano così di riceverla in sorte. Rammendare l’umanità perché non sia della morte l’ultima parola. Una rivoluzione globale, nientemeno, al cui confronto la rivoluzione dell’89 è stata un aggiustamento e quella di ottobre una scorribanda.
La parola rivoluzione cerco di tenerla per me, ben protetta sotto la coltre delle sue ceneri, ma ce n’è forse un’altra? Sempre con il mio sguardo corto di campagnolo guardo il mio vicino Fausto e vedo un brav’uomo, un contadino gentile, eppure quel brav’uomo è un pericoloso terrorista climatico; coltiva orzo e grano, e questo gli basta appena per sopravvivere perché quest’anno i cereali al contadino son pagati decentemente ma negli anni passati anche per le qualità pregiate poco e niente, e quando il blocco sarà finito i prezzi torneranno a calare. Allora per mandare i suoi tre figli a scuola coltiva kiwi; il kiwi piace, è molto gradito dai salutisti e dalla lobby della stitichezza, ma è un killer ambientale, richiede dieci volte l’acqua necessaria per il grano, acqua che da un bel pezzo non viene più giù dal cielo, e per vegetare bene in una terra che non è la sua natia richiede una notevole quantità di fitofarmaci e fertilizzanti. Per come stanno le cose chi se la sente di dire a Fausto che non ha diritto di coltivare kiwi e i suoi figli non ne hanno di andare a scuola? E quanti milioni sono i Fausto nel mondo vincolati a leggi di mercato e di marketing a cui disobbedire costa la miseria nera? E solo pensando ai contadini, perché ce li ho qui oltre la porta di casa, e ai consumatori di kiwi perché quelli ce li ho dentro casa, non so immaginare che un rivolgimento radicale, si chiama comunemente rivoluzione, del mercato agricolo, della speculazione sui cereali, della mentalità dei contadini, della scuola dei loro figli, delle aspettative dei consumatori. Da coniugarsi e moltiplicarsi per le innumeri malvagità di cui siamo autori e vittime. So questo e non so se sarà mai possibile; non si tratta di abbattere un regime ma di mutare la rotazione di un universo, non credo che sia mai successo nella storia dell’umanità. Le rivoluzioni le dirigono le avanguardie, per questa un’avanguardia globale, e le conducono i popoli, per questa un popolo universale; le rivoluzioni sono armate e per questa servono armi micidiali del pensiero, della fantasia, della conoscenza, del sentimento.

Non so vedere niente di tutto ciò, il solo immaginare dà le vertigini; ma questo non vuol dire niente, ho la vista corta e non sono certo io al centro della storia. Però so anche che l’unica alternativa a questo senile esercizio dell’utopia – a proposito, utopia può essere indifferentemente tradotto come il luogo che non c’è o con il luogo buono, a voi la scelta- è la distruzione. E so ancora che il sentimento della distruzione è lì, già domani, e porterà con sé la disperazione, una disperazione universale; così come so che la disperazione non sa usare che un’unica arma, che è arma di rivalsa e di vendetta, e non conosce né pensiero, né fantasia, né conoscenza né tantomeno sentimento.

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