Annalisa Cuzzocrea La Stampa 13 Luglio 2022
Conte tentenna: il rebus fiducia
Il leader sotto assedio prende tempo. Tre settimane per decidere sulla rottura
La linea è contorta, talmente tortuosa che si fa fatica a seguirla fino in fondo, ma è questa: il Movimento non voterà la fiducia al Senato sul decreto aiuti, non può farlo perché al suo interno c’è un emendamento – quello sul termovalorizzatore di Roma – che i 5 stelle hanno chiesto in ogni modo di cambiare, di edulcorare, di ammorbidire, ma sul quale hanno ricevuto solo dei sonori «no». E quindi a Palazzo Madama, dove il voto di fiducia al governo e quello sul provvedimento sono – a differenza che alla Camera – contestuali, è molto probabile che i senatori grillini non siano in aula. Lasciando che la fiducia passi senza il loro apporto e che sul decreto non ci sia la loro firma.
Questo però, almeno è quello che sperano, non dovrebbe comportare la caduta automatica del governo. Perché anche se Draghi salisse al Quirinale e Mattarella chiamasse Conte per avere chiarimenti, quello che il leader del Movimento direbbe è che si tratta di una sfiducia legata a un provvedimento contingente e che per decidere definitivamente cosa fare il suo partito aspetterà la fine del mese: quando sarà pronto il decreto annunciato ieri dal premier ai sindacati su salari, costo del lavoro, caro-vita.
E quindi sì, il governo cammina su un dirupo, bendato, mentre il terreno gli frana sotto ai piedi. Perché – e non a caso il Pd è preoccupatissimo – non è affatto detto che una simile spiegazione possa bastare al Colle. Ma anche se fosse così, ci sono gli altri partiti della maggioranza, da Forza Italia, che ha già chiesto una verifica, alla Lega, che muore dalla voglia di avere le mani libere su ogni legge, che diranno: no, così non si può fare, o si è dentro o si è fuori.
Di tutto questo, i protagonisti sono forse consapevoli. Solo non pensano di avere alternative. E quindi andrà così, il Consiglio nazionale del Movimento 5 stelle convocato stamattina per decidere cosa fare, di questa esperienza di governo, del voto di fiducia di domani al Senato, della futura alleanza con il Partito democratico, sempre più difficile, sempre più in bilico. Andrà che la vicepresidente Alessandra Todde, il capogruppo alla Camera Davide Crippa, l’ex sindaca Chiara Appendino, spiegheranno tutte le ragioni per cui rompere adesso non si deve, non si può. Mentre la vicaria di Conte Paola Taverna e gli altri vice, Mario Turco, Riccardo Ricciardi, Michele Gubitosa, ripeteranno i ragionamenti fatti in tutte le call di questi giorni, e assunti in parte dallo stesso ex premier: «Settembre e ottobre saranno mesi molto difficili e noi non possiamo farci dissanguare per Draghi». E quindi, «l’unico modo per tentare di risalire nei sondaggi è uscire adesso e metterci all’opposizione fino alla fine della legislatura. Stando dentro, il crollo è inevitabile». Perché le rilevazioni degli ultimi mesi vedono il Movimento scendere di mezzo punto percentuale a settimana. «E andando avanti così – è l’avviso di uno dei fedelissimi di Conte – alle elezioni arriviamo al 5 per cento, se ci arriviamo. Poi certo possiamo sempre decidere di estinguerci prima. A questo punto sarebbe una soluzione».
Conte ascolterà tutti, ieri ha annunciato che solo stamattina avrebbe sciolto la riserva sul da farsi proprio per dimostrare la centralità del consiglio nazionale, ma la sua linea non potrà essere quella di una rottura immediata. Per due ragioni molto semplici: la prima è il rapporto con il Partito democratico, che serve anche per le prossime elezioni se si vuole avere qualche chance di vittoria nei collegi contro il centrodestra unito. Anche qui, i falchi dicono: «Ma non è vero che romperemmo, alla fine potremmo dare un appoggio esterno e mantenere l’alleanza comunque». Dal Nazareno però ieri è arrivato un sonoro: «Scordatevelo. Se adesso rompete il governo cade, si va al voto in autunno e l’unica a festeggiare sarà la destra di Salvini e Meloni».
Ci sono poi le ragioni di merito. A Mario Draghi Conte ha consegnato un documento in nove punti che aspetta ancora delle risposte. Ma dall’incontro di ieri del governo con i sindacati, e dalla successiva conferenza stampa, sono arrivate indicazioni vaghe, difficili da giudicare. C’è un timing preciso però. Un decreto, corposo, che dovrà arrivare entro fine luglio. Sarà quello il momento delle scelte definitive.
Agire prima significherebbe dare l’impressione di stare cercando un pretesto per una ragione tutta elettorale. Di non avere davvero a cuore le misure sui salari, sul contrasto all’inflazione e al caro-energia, sul costo del lavoro e sul blocco della cessione del credito, che sono per i 5 stelle ineludibili e che – secondo la loro visione – richiedono una terapia d’urto, non pannicelli caldi.
È vero che Draghi ha ancora una volta fatto capire di voler evitare a tutti i costi uno scostamento di Bilancio, che invece il Movimento considera obbligato. Ed è vero che non ha dato alcuna garanzia sul superbonus, altro segnale atteso. Ma legare il voto sul decreto aiuti alla fine del governo senza aspettare quel che succederà a fine mese è considerato controproducente.
«Draghi è stato attento a non dare alcuna cifra», ha raccontato il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli a chi gli chiedeva informazioni dopo l’incontro con i sindacati. È stato invitato all’ultimo minuto, non ha parlato, ma era lì come una vedetta cui è richiesto di capire dove tira il vento. E quel che ha capito, è che ci sono margini di trattativa che se non venissero esplorati adesso potrebbero far dire ai nemici del Movimento: vedete, volevano rompere per forza.
La spinta per uscire è però ormai fortissima: arriva dai parlamentari, anche perché quelli che non sono andati via con Luigi Di Maio sono i meno affezionati – per usare un eufemismo – al governo Draghi e alle sue politiche (ieri in un ufficio del Senato risuonava questa frase: «Il sentiment diffuso nel Movimento è che ci siamo rotti il ca…»). Arriva dalla base, «Sono sommersa di messaggi dei miei che mi chiedono: “Cosa state aspettando?”», ha raccontato durante una call Paola Taverna accolta da un coro di: «Anch’io, anch’io». E se finora c’è stato un argine alla rottura con Draghi, Beppe Grillo, quell’argine si è rotto: quando è venuto a Roma, il fondatore ha capito che la situazione è difficilmente sanabile. «Se volete uscire, io non ho problemi», è l’ultima cosa detta dopo mille contraddizioni. Perché in tutto questo ha pesato la scissione di Di Maio, hanno pesato i sospetti sul ruolo di Palazzo Chigi, che – è l’opinione diffusa ai vertici M5S – «non poteva non sapere» quel che stava orchestrando il ministro degli Esteri. E quindi no, non è scongiurata la crisi. Ma rinviata, ancora. Sempre che domani il gioco di prestigio non riesca, e tutto precipiti.