Annalisa Cuzzocrea La Stampa 14 Luglio 2022
Conte: “Non farò il Di Maio”.
Il leader cede ai falchi e spera nella crisi lampo
Oggi il voto di fiducia in Senato, il Movimento non parteciperà: «Le promesse non bastano, stop alle cambiali in bianco»
Dice che «i cittadini non capirebbero», Giuseppe Conte. La definisce «una questione di coerenza». Per questo, con ore di ritardo, annuncia davanti all’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari quel che aveva deciso già da qualche giorno: «Il Movimento 5 stelle non parteciperà al voto di fiducia sul decreto Aiuti al Senato perché non è possibile, come alla Camera, votare separatamente il provvedimento». Conte rivendica il documento in 9 punti portato a Draghi e le aperture del premier sulla questione sociale.
Le considera un merito esclusivo del Movimento. Così come definisce il suo partito l’unico a preoccuparsi delle sofferenze dei cittadini. Un modo – seppur inelegante nei confronti degli alleati del Partito democratico – per rivendicare l’importanza della permanenza dei grillini al governo. Anche se – dice – «la nostra non può essere una cambiale in bianco».
E quindi, la scommessa del leader M5S è che anche senza l’apporto del Movimento, la fiducia passi lo stesso. E che la crisi politica aperta – con Draghi che sale al Colle per riferire a Mattarella – si possa chiudere con un nuovo voto al governo, condizionato a quanto promesso: un decreto di luglio su salari, cuneo fiscale, precarietà. Che sia un azzardo, lo capiscono tutti gli attori in campo. Anche gli stessi 5 stelle, convinti però che lo spettro delle elezioni anticipate sia stato agitato da Palazzo Chigi, Pd e perfino dalla Lega solo per spaventarli. Per far sì che non vadano fino in fondo.
Sembra strano a vederla da qui, ma quella di Conte è una frenata. Perché gli istinti che ha eccitato, e che ora cerca di contenere, vorrebbero addirittura altro. «Giuseppe, la verità è che siamo in un imbuto: o ora o mai più», gli ha detto durante il Consiglio nazionale la sua vicaria, Paola Taverna. «Draghi ha aperto un minimo alle nostre richieste, ma è tutto da vedere – ha continuato – bisognerebbe dargli un ampio margine di credito se decidessimo di tornare indietro. Davvero pensi che possiamo fidarci? Dopo tutto quello che ci ha fatto?». Continua, Taverna, e spiega: «Se accettassimo la sua mano tesa adesso, la tempesta perfetta potrebbe non ricrearsi mai più». Ma davvero, la tempesta perfetta è quella di un decreto su cui i 5 stelle hanno già votato la fiducia alla Camera? Davvero, si può far cadere un governo per un emendamento sul termovalorizzatore di Roma?
A quel punto sono gli altri vicepresidenti a intervenire. Ricciardi, Gubitosa, Turco, i più convinti – non lo è solo la viceministra allo Sviluppo Alessandra Todde – che tanto il governo non cadrà ugualmente. Anche se fosse Draghi a sottrarsi, «arriverà quello con lo zainetto, Cottarelli!», spiega uno dei fedelissimi dell’ex premier. A gelarli, a un certo punto, sono i bip dei telefonini. Sugli schermi di tutti, da Chiara Appendino ad Alfonso Bonafede passando per Davide Crippa, arrivano le agenzie con la frase ultimativa di Matteo Salvini: «Se i 5 stelle non votano la fiducia si va al voto». Aveva detto il contrario appena tre giorni fa, ma, come il Pd ha capito da tempo, per il centrodestra la situazione è perfetta: si può far cadere il governo addossando la responsabilità al Movimento. Il che renderebbe impossibile l’alleanza a sinistra e farebbe vincere le elezioni alla destra a tavolino.
Qualcuno prova a spiegarlo. Tra i più cauti, ci sono Alfonso Bonafede e a sorpresa anche Stefano Patuanelli. Il ministro dell’Agricoltura e capo della delegazione M5S nel governo ha la responsabilità di rappresentare la posizione di tutti i ministri. E Federico D’Incà e Fabiana Dadone erano addirittura convinti che fosse necessario votare la fiducia e rimandare ogni altro confronto a fine luglio, quando Draghi avrà scoperto le carte. Quello che ha cercato Conte è quindi, ancora una volta, un compromesso tra anime inquiete, che però sono state spinte sul limite proprio dalle sue parole delle ultime settimane.
Nel pomeriggio chiama Mario Draghi, cerca altre rassicurazioni da dare ai suoi, vuole capire se quel che ha in mente – un governo che va avanti comunque con una nuova fiducia – può funzionare. Ma trova una posizione rigidissima. Perché Draghi sa già che accettare uno scenario del genere significherebbe dover fare lo stesso con la Lega, già la prossima settimana sulla norma sui tassisti nel ddl Concorrenza. E insomma, sarebbe il Vietnam. Il leader M5S tira i dadi, va avanti lo stesso, non può fare altrimenti. Alla riunione della sera del Consiglio, i senatori annunciano che diranno no alla fiducia all’unanimità. L’idea di seguire il precedente della Lega sul Green pass bis, quando più della metà delle truppe di Salvini non votò la fiducia, non viene presa in considerazione.
A questo punto, tutto diventa più difficile. Anche il rapporto con il Pd, perché questa mossa ha convinto definitivamente Letta e i suoi: se non succede ora, Conte vorrà rompere di certo in autunno, sulla manovra di Bilancio. Quando tutto sarà ancora più difficile. Con l’unico intento di risalire qualche punto nei sondaggi, a discapito di ogni progetto futuro. Del resto, è stato lo stesso presidente M5S a sbottare con chi gli chiedeva se non fosse stretto tra due estremi, i “dibattistiani” ancora dentro i 5 stelle e chi da fuori, come Di Maio, lo accusa di preparare un Papeete due: «Non potrò mai essere un Di Battista – dice Conte sicuro – ma certo non sarò mai un Di Maio».