Conte si decompone, si festeggia per la deriva centrista del Pd

Stefano Folli La Repubblica 19 luglio 2022

 

Pd, dal campo largo al partito di Mario Draghi

 

Il problema non è il futuro di Giuseppe Conte, bensì la strategia di Enrico Letta che si trova all’improvviso privo dell’alleato privilegiato e quindi di una linea. Tuttavia un fatto nuovo è davanti ai nostri occhi

 

Può darsi che la seconda scissione del M5S, data per imminente, sia meno vistosa della prima. Vero è che l’assemblea permanente del movimento, sempre più simile a una seduta di autocoscienza collettiva, è percorsa da un malessere al limite della rissa, per cui tutto è possibile. Assistiamo allo spettacolo amaro della disgregazione di un partito che quattro anni fa ebbe il voto del 32,6 per cento degli elettori.

Il capogruppo alla Camera, Crippa, ha subìto un processo popolare per aver assecondato la richiesta del Pd favorevole a far svolgere il dibattito di domani (mercoledì 20 luglio) – e il voto di fiducia – prima a Montecitorio e poi al Senato. In realtà poi si è tornati alla prassi: prima al Senato. La questione procedurale è di nessun interesse per il grande pubblico, tuttavia è significativa: Crippa sembra ormai in via d’uscita e si porterà dietro altri dissidenti, magari meno numerosi del gruppo che seguì Di Maio.

In ogni caso, il quadro è ormai completo. Quella che doveva essere la vendetta di Conte conto Draghi, si è trasformata nell’auto affondamento dell’ex premier, del quale sono emersi tutti i limiti politici. Comunque finisca, i 5S sono destinati a un ruolo marginale. Oppure a rifugiarsi nella trincea del massimalismo demagogico, dove Conte sarà presto scalzato da personaggi più scaltri e spregiudicati di lui. Non è un caso che Grillo stia facendo poco o niente per sostenere la confusa campagna anti-Draghi dell’avvocato e si limiti a mandare messaggi criptici.

Peraltro il problema non è il futuro di Conte, bensì la strategia di un Pd che si trova all’improvviso privo dell’alleato privilegiato e quindi di una linea. Il campo largo era una formula pensata per indicare l’intesa politico-elettorale con i 5S. Ora è tutta da rivedere. Si capisce perché Enrico Letta sia il più angosciato. Ha bisogno che Draghi resti, ma anche che i 5S ritrovino un po’ di senso delle istituzioni. Ovviamente l’idea di recuperare l’asse con Conte sembra evanescente, a maggior ragione se i resti del movimento rotolassero verso un’opposizione radicale. Il partito più filo-Draghi alleato del più anti-Draghi? Suona poco probabile.

Di fatto, tuttavia, il Pd non ha una linea di ricambio. Di Maio e gli scissionisti sono affidabili (europeisti, atlantisti), ma hanno pochi voti. E sono tutti in cerca di sistemazione. Letta ha probabilmente una sola strada: assumere un profilo riformatore, non solo nel campo dei diritti individuali (ius soli, ius scholae, legge Zan) quanto soprattutto rispetto al rinnovamento economico, sociale, strutturale ancora ai primi passi. Il Pd può decidere di essere il partito che guida la riforma del Paese in chiave liberal-democratica.

Sarebbe in grado di farlo da solo o più facilmente con l’arcipelago dei gruppi centristi (+Europa, Calenda, Italia Viva) a cui la crisi ha restituito dinamismo. Qui c’è da superare la diffidenza ormai storica tra Letta e Renzi, le cui cause sono ben note. Sulla carta, non c’è da illudersi granché.

Tuttavia il fatto nuovo, in vista delle elezioni – quando saranno – , è davanti ai nostri occhi. Draghi, come si sa, non intende assumere una veste politica, ma nulla vieta a uno schieramento trasversale di ispirarsi a lui e di farne una sorta di “leader ombra”. La petizione di oltre mille sindaci dimostra che qualcosa si muove. Se il Pd assumesse con decisione la leadership morale del movimento pro-Draghi, avrebbe una bandiera più credibile del campo largo. E sarebbe competitivo con Giorgia Meloni.

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