Il centro draghiano muore nella culla trascinandosi dietro il governo

Francesco Verderami Corriere della Sera 21 luglio 2022
Cambiano gli equilibri: attorno all’agenda Draghi parte la corsa del centro
L’addio del ministro Gelmini prelude ad un’emorragia di parlamentari azzurri di area moderata. Potrebbero andare a costruire il centro con Renzi e Calenda


Draghi lascia la scena, ma in campagna elettorale il suo nome sarà quello più citato. Persino il profilo delle coalizioni sarà influenzato dagli effetti del suo governo, e dal modo in cui è finito. Insomma Draghi c’è anche se non c’è già più. E proprio perché la figura del premier agli occhi dei partiti stava progressivamente assumendo un carattere politico, il centrodestra ha sfruttato l’apertura della crisi provocata da M5S per puntare alle urne ed evitare di venir destrutturato dall’azione di palazzo Chigi. Già l’altro ieri si erano visti i prodromi della manovra: al vertice da Berlusconi — dove non erano stati invitati i ministri di Forza Italia — i tentativi di mediazione di Gianni Letta erano stati respinti. E ieri il Cavaliere ha risposto al telefono a Draghi solo a operazione completata. Tatticamente si tratta di una mossa “di scuola”, che consente ai tre leader di compattarsi, di presentarsi uniti alle future elezioni e di impedire che la temuta “mutazione montiana” del premier si completi.

In realtà il centrodestra già oggi paga un costo per la sua scelta. L’addio del ministro Gelmini dalle file azzurre — e il disagio che al momento non si è tradotto in rottura della Carfagna e di Brunetta — prelude a un’emorragia di una decina di parlamentari forzisti dell’area “moderata”. Quelli che, per dirla con il senatore Cangini, non si rassegnano alla «politica mangiata dalla demagogia». È un fatto però che l’accelerazione verso il voto toglie spazio e tempo al disegno di quelle pattuglie centriste che si muovono alla periferia della coalizione e sono attratte dal magnete draghiano. Si vedrà se il centrodestra sconterà un dazio elettorale per essersi cointestato l’offensiva finale contro il governo di unità nazionale. Ma non c’è dubbio che in campagna elettorale dovrà fronteggiare una narrativa degli avversari impostata proprio sulla figura e l’opera del premier.

«Sempre che il premier non scenda direttamente in campo», spiegavano ieri all’unisono un esponente di centro e un deputato del Pd. Sono speranze ridotte al lumicino e coltivate per qualche istante ieri sera dopo la scelta del Quirinale di imporre anche il passaggio alla Camera sulla fiducia. Ma ai centristi già basterebbe «un endorsement di Draghi sulla sua agenda di governo»: «Un simile evento sconvolgerebbe il quadro politico e potrebbe mettere in dubbio il pronostico che dà già per vincente il centrodestra alle elezioni». Bisognerebbe capire quanto del gradimento personale (molto alto) del premier si trasformerebbe in consensi. Eppure Renzi ci scommette. Lo si è capito nel dibattito al Senato, quando il leader di Italia Viva ha annunciato che «daremo una casa e un tetto ai riformisti, perché il nostro sì a Draghi non riguarda solo il passato. Riguarda il futuro».

Quanto grande possa essere questa casa, non è dato sapere. La formazione di Toti, sebbene schierata con il premier, sarà chiamata a una scelta di campo. E siccome l’attuale sistema di voto ha una ferrea logica di schieramento e il governatore ligure guida una giunta di centrodestra, il passo sembrerebbe obbligato. Ma l’arcipelago centrista che si muove sulla linea di frontiera tra i due blocchi può avere nell’agenda Draghi il collante ideale. Vale per Renzi quanto per Calenda. Come vale anche per Di Maio, che meditava altri progetti quando fece la scissione da M5S e confidava di avere tempo per strutturare la sua operazione. Al punto che, il giorno dopo il distacco dai grillini e sotto l’effetto dell’endorfina, si lasciò andare a una confidenza con un collega ministro: «Vedrai… a settembre anche Giancarlo sarà dei nostri».

Vere o meno che fossero le aspettative, ieri sera “Giancarlo” Giorgetti le ha mandate deluse: «La fine del governo poteva avvenire in modo più dignitoso», ha commentato laconico. Il ministro non lascia la Lega, ma insieme ai governatori fa trapelare un malcontento che promette di diventare qualcos’altro in futuro se il disegno elettorale di Salvini non andasse come da copione. Perché la verità è che in questi sedici mesi la figura di Draghi ha agito in profondità nei partiti della maggioranza. E per quanto nessuna forza politica abbia mai amato il premier, alcune di esse oggi — per calcolo o disperazione — si aggrappano all’ex capo della Bce per sfuggire a un destino apparentemente già segnato.

È il caso, per esempio, del Pd. Quando nacque il gabinetto di larghe intese, al Nazareno l’ostilità dei democrat verso Draghi si tradusse in una frase: «Questo governo fa paura». Ora che fa paura il centrodestra, persino i dirigenti più avversi al premier hanno in tasca il suo santino. D’altronde a chi potrebbero affidarsi adesso che il “campo largo” non esiste più? Ieri, appena si è sparsa la notizia di un incontro tra Letta, Speranza e Conte è scoppiato il pandemonio nel partito dove non vogliono più sentir parlare del capo grillino. Via il punto di riferimento del progressismo, nel Pd si alzano le insegne di Draghi e della sua agenda. Guerini parla fitto con Renzi come non succedeva da anni. E Letta proverà ora a costruire un rassemblement nel nome di “super Mario”. In fondo la partita elettorale si deve ancora giocare.

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