Le ultime ore che precedono il Draghificio

Francesco Verderami Corriere della Sera 23 luglio 2022
Crisi di governo, Draghi dopo le dimissioni: «Ora lasciatemi fuori»
L’agenda Draghi non coincideva con l’agenda dei partiti? Secondo il premier, la crisi di governo è stata un «divorzio unilaterale», deciso dal centrodestra dopo l’«ingenuità» del M5S. La settimana che cambiò l’Italia: dalle dimissioni respinte a quando ha rassegnato il mandato


«Le cose andavano bene e bisognava farle andare male». L’altro ieri, per commentare la fine del governo, Draghi si è ispirato alle leggi di Murphy e le ha adattate alla sua indole romana. Così, con una battuta, ha smontato la tesi in voga nel Palazzo: l’idea che la crisi sia stata frutto di un divorzio consensuale tra il premier e le forze della maggioranza, che avrebbero tacitamente convenuto di non poter più andare avanti perché l’agenda Draghi non coincideva con l’agenda elettorale dei partiti.

Il presidente del Consiglio — che la crisi l’ha vista da vicino — sostiene invece si sia trattato di un «divorzio unilaterale», deciso dal centrodestra dopo l’«ingenuità» dei Cinque Stelle. Salvini e Berlusconi hanno subito sfruttato l’occasione offerta da Conte. Altrimenti non avrebbero rotto, timorosi com’erano della reazione del loro elettorato. È l’imperizia del Movimento, insomma, ad aver compromesso irrimediabilmente l’equilibrio. E sempre da lì parte ogni qualvolta ripercorre la fine delle larghe intese. E rivede l’atteggiamento sempre più conflittuale del leader della Lega che nemmeno rispondeva alle telefonate, il gioco a specchio del Cavaliere, certe reazioni stizzite di una parte del mondo accademico geloso dei risultati del suo gabinetto.
La sciocchezza del Movimento
Senza la «sciocchezza» del Movimento resta convinto che avrebbe proseguito, anche nelle difficoltà prodotte dai partiti che — avvicinandosi la scadenza elettorale — ogni giorno avanzavano nuove richieste. «Siete dei rompiscatole», diceva Draghi al termine delle telefonate: «Tanto lo so che domani vi inventerete un’altra cosa». Sarà stato forse un eccesso di razionalizzazione dei processi, ma era persuaso che la maggioranza gli avrebbe fatto completare il programma e gestire le rogne: dalla Finanziaria al rigassificatore di Piombino, contro cui hanno protestato tutti i partiti della coalizione, insieme al sindaco della città che è di Fratelli d’Italia.

È dopo «l’errore di Conte» che ha cambiato idea. Perciò era salito al Quirinale per rassegnare il mandato: «Ma Mattarella — disse ai suoi collaboratori — mi ha chiesto di andare in Parlamento e io ci vado». Le cinque giornate di Draghi, vissute tra le dimissioni e il dibattito al Senato, sono state la testimonianza che non c’era più nulla da fare. «In quella fase — raccontano a Palazzo Chigi — era un susseguirsi continuo di telefonate con il capo dello Stato: cinque, sei, sette… A un certo punto abbiamo perso il conto».
In Draghi il «tentativo genuino» di provare a rimettere insieme i cocci della maggioranza si scontrava con la percezione che mancasse la volontà dei partiti di collaborare. E che questo fosse «l’epilogo naturale delle elezioni del 2018». Dopo il definitivo commiato dall’incarico, il premier ha ricostruito la sequenza degli eventi e si è convinto che non sarebbe servito a nulla «un approccio più mellifluo» nel discorso al Senato, «perché tutto era stato deciso». I grillini «non volevano ricucire» e Salvini — che vedeva «la porta spalancata» delle urne — aveva già stretto l’accordo con Berlusconi.
Ne ebbe la certezza la sera in cui ricevette a Palazzo Chigi la delegazione del centrodestra, che protestò perché in mattinata Draghi aveva incontrato il segretario del Pd . «Letta aveva chiesto di vedermi», rispose il premier: «Allora gli ho detto di venire qui. Sarà stato un errore ma…». «Mario», lo interruppe Tajani: «Nessuno di noi ha mai messo in dubbio la tua malafede». E dopo quel lapsus freudiano, iniziò una lunga sequenza di richieste per dar vita a un nuovo governo e andare al voto a marzo. «Fosse per me anche a febbraio», spiegò il capo del governo: «Ma questa decisione spetta a Mattarella, non posso stabilirla io».

Il profilo super partes
Tutti sapevano che Draghi non avrebbe mai accettato di guidare un Draghi-bis, né nella versione proposta dal centrodestra né nella versione poi auspicata dal centrosinistra. Il motivo è chiaro, e non è legato solo al fatto che questo nuovo esecutivo non sarebbe durato «nemmeno un giorno». Il punto è che l’ex capo della Bce, dicendo sì, avrebbe perso il suo profilo super-partes. E non intendeva consegnarsi al gioco dei partiti, nemmeno indirettamente. Infatti quando alcuni esponenti politici nei giorni scorsi gli hanno chiesto di poter usare il suo nome per la loro lista, il premier li ha dispensati con una battuta, prima di chiedere di «lasciarmi fuori»: «Basta con la politica. Ho altre idee per me in futuro».
Eppure quando entrò al Senato per il suo ultimo intervento, avrebbe proseguito «se i partiti avessero preso coscienza degli errori». Certo, «aveva le tasche piene» dell’andazzo, «ma non ero stanco» come ha sostenuto il Cavaliere. E non voleva i «pieni poteri», anche se «quella frase sugli italiani che ho pronunciato in Aula potevamo migliorarla», ha detto poi ai collaboratori. Ma la richiesta di restare a Palazzo Chigi giunta dal Paese, l’aveva condivisa. Quanto le parole dei suoi familiari che — dopo aver inizialmente accolto con sollievo le sue dimissioni — gli avevano intimato: «Non puoi star fermo».

Quel discorso a Palazzo Madama parve però a tutto l’emiciclo un’entrata a gamba tesa sulla politica, come se il premier cercasse di farsi «espellere». Nelle intenzioni di Draghi era invece l’unico modo per dire le cose come stavano: «Bisogna ricominciare a trivellare per estrarre il gas. E Piombino, i balneari, i tassisti…». E infine il passaggio su Putin, che non poteva esimersi dal fare e che sapeva avrebbe fatto imbestialire Salvini, intento ancora a coltivare stretti rapporti con l’ambasciatore russo, con cui si vede a cena.

I rapporti ruvidi
È finita com’è finita. Ma dopo le cinque giornate, Draghi ha potuto constatare com’erano cambiati nel tempo i rapporti in seno al Consiglio dei ministri, anche con le persone con cui nell’anno e mezzo di governo aveva avuto «rapporti ruvidi» e che però nell’ultima fase si erano mostrati «collaborativi». Per esempio Franceschini . I loro duelli in seno al governo sono noti, ma il premier riconosce che il ministro della Cultura si è «adoperato per ricucire» ed evitare la crisi. Quando arrivò a Palazzo Chigi non si capacitava del fatto che i media venissero a sapere quasi in tempo reale di quanto accadeva durante le riunioni. Tanto che un giorno avvisò i ministri: «Non costringetemi a farvi lasciare i cellulari fuori dal salone».
Ora che sta per congedarsi farà «il possibile» per garantire la transizione con il prossimo esecutivo sui temi in agenda: dal Pnrr alla contabilità di Stato. E non vede scossoni a livello internazionale per l’Italia. È vero, dai partner occidentali sono arrivati molti appelli pubblici e molte telefonate private perché non mollasse. Ha gestito tutto direttamente, con il suo cellulare, senza mai passare attraverso i canali diplomatici. E quando gli hanno chiesto se anche Biden l’avesse chiamato, ha tergiversato un attimo prima di rispondere «no».

Le cinque giornate sono state molto dure. In quella fase è parso taciturno e guardingo anche con le persone dello staff: «D’altronde — sussurrano a Palazzo Chigi — era la prima volta nella sua lunga esperienza che si trovava con tante persone intorno. Nemmeno alla Bce». Così si viene a sapere che a Francoforte circolava una definizione sul suo conto: «Draghi è ovunque ma non è qui». Il premier non ne era (ovviamente) al corrente, ma l’ha trovata simile a quella che fece un suo amico negli anni della giovinezza: «Mario è altrove, impegnato».
Le idee per il futuro
Adesso sono tornate le battute e si concede a discutere di politica leggendo i sondaggi, che prevedono un risultato elettorale chiaro e che però fanno anche trasparire un desiderio di centro nella pubblica opinione. Perciò si informa sulle dinamiche dei partiti e sui processi di aggregazione che dovrebbero verificarsi in vista del voto. È un modo per prepararsi al distacco, in attesa delle «idee che ho per il mio futuro». E che non prevedono alcun tipo di coinvolgimento nella sfida delle urne. Semmai è rammaricato per non aver completato la missione, perché — per esempio — sulla politica energetica, dopo essersi speso per garantire un progressivo distacco dalla dipendenza russa, teme che a novembre non parta il rigassificatore di Piombino. Un vero chiodo fisso.

Al pari della Roma. L’acquisto di Dybala l’ha galvanizzato, il fantasista argentino gli piace tanto. E il fatto che abbia segnato il primo gol della squadra in allenamento è per lui una sorta di premonizione. Ma è Mourinho l’uomo che «ha cambiato tutto». Dopo la vittoria della Conference league, Draghi sostenne che il tecnico portoghese avesse «trasformato un gruppo di abili giocolieri in una squadra». Non c’era alcun riferimento alle vicende politiche.

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