In una politica piena di egocentrismo, il disprezzo e la paura per il temuto Di Battista

Massimiliano Panarari La Stampa 05 Agosto 2022
Dibba, l’eretico amato dagli ortodossi che può infiammare il reality 5 Stelle
Dopo l’auto-esilio dal Movimento 5 Stelle il figliol prodigo torna sulla scena politica. Dagli attacchi a Di Maio all’apertura del presidente, può essere il nuovo frontman

 

È tornato. E rappresenta, «come prima, più di prima», una mina vagante altamente esplosiva.

All’indomani del viaggio nelle viscere della «Russia profonda», e dopo averne scritto le memorie dal sottosuolo (pubblicate su Il Fatto), il «Putin-comprendente» Alessandro Di Battista è sbarcato nuovamente a Roma. Così, il “grande inquisitore” delle nefandezze dell’Occidente in politica estera – anche se qui, a scanso di equivoci, non c’è nulla di dostoevskijano – si è reimmerso nella politica nostrana.

Per la verità, non se ne era mai allontanato, e anche dall’immensa vastità eurasiatica, piena di anime morte putiniste, ha tenuto rigorosamente d’occhio la situazione, dichiarando e lanciando messaggi via social. Nei quali ha alternato opinioni, prese di posizione, qualche excusatio non petita («contrariamente a quel che scrivono di me, io non sono affatto anti-americano») e promesse evergreen del Movimento 5 Stelle, tradite dai suoi dirigenti (come il rifiuto del professionismo e del «carrierismo» politico).

Insieme a una certa dose di vittimismo e a più di una spolverata di complottismo. Tutti ingredienti essenziali per far gonfiare il perfetto soufflé della narrazione populista. Dove pullulano, altresì, insieme a qualche “licenza sintattica”, tanti strali e anatemi, indirizzati contro il «sistema» (i «primi a violentare la volontà popolare sono coloro che la tirano in ballo solo quando gli conviene»), avversari politici (che abitano uno «stomachevole teatrino») e media (che scrivono su di lui con «livore» e «astio», pieni di «pseudo-giornalisti che descrivono il mondo guardandolo dal terrazzo di casa circondati da Ztl, ciclamini e senso di fallimento», e «infangano il mio lavoro»); e chissà di quali colpe si saranno macchiati i ciclamini “elitisti”…

Special guest delle reprimende dell’incendiario anticasta e antisistema è, naturalmente, il Pd «il garante degli interessi dell’establishment», che «ha approvato leggi ignobili» e «si aggrappa al banchiere» – leggasi: Mario Draghi che, se non lo si fosse capito, «se ne è andato lui» (d’altronde, si sa, per curare il «daltonismo populista» gialloverde non basta l’oculista). E, poi, c’è l’altro bersaglio preferito: l’ex “gemello diverso” «Dimma» che il Dibba furioso ha ribattezzato sui suoi canali comunicativi «Luigi Di Vano». A cui rivolge plurime carinerie, la più gentile delle quali è la seguente: «Di Maio non ha un voto. Chi conosce il fanciullo di oggi, lo evita. Trasformista, disposto a tutto, arrivista, incline al più turpe compromesso pur di stare nei palazzi» (troppa grazia…).

Insomma, ecco il «meraviglioso mondo di Dibba», intriso di superlativi moraleggianti e di una santa indignazione ontologica, con l’Eroe che combatte praticamente da solo contro il resto del mondo. Un immaginario “personalizzato”, a volte un po’ ombelicale e autoreferenziale, dove l’«io, io, io», misura di tutte le cose – compresi i fenomeni collettivi – la fa alquanto da padrone.

Un narcisismo, comunque, non stupefacente, visto che si tratta di colui che è stato il golden boy e il frontman del Movimento ante-governista, ora verosimilmente in grado di tornare a scaldare gli animi degli ortodossi e di alcuni delusi, e “titolare” – secondo alcune rilevazioni riservate commissionate dal gruppo dirigente pentastellato – di un pacchetto di consensi, che potrebbe portare in dote in caso di rientro, compreso tra lo 0,6 e l’1%. «Tanta roba», quindi, specialmente per questa fase storica in cui i notabili del M5S, alle prese con l’esaurimento della spinta propulsiva e dei fasti del passato, e inguaiati ulteriormente dall’irremovibilità di Beppe Grillo sul terzo mandato, lottano direttamente per la sopravvivenza politica.

La notizia della telefonata («franca e cordiale») intercorsa di recente con Giuseppe Conte lascia presagire una possibile candidatura e la fine dell’autoesilio dal Movimento della star extraparlamentare del fondamentalismo grillino (colui che si è sempre percepito come il custode più autentico del «verbo» delle origini). Per certi versi, pure una conferma della regola inviolabile dei partiti italiani per cui «extra Ecclesiam nulla salus», al punto che anche l’«eretico» più amato dagli ortodossi (nulla di cui stupirsi, dato che il M5S è un puro paradosso postmoderno) sa di poter svolgere la sua azione politica al meglio soltanto dentro e intra moenia. Specialmente ora che, “cacciati i mercanti dal tempio”, come ritengono gli irriducibili del grillismo prima maniera, la chiesa pentastellata si rivela particolarmente propensa ad accogliere la predicazione integralista dibattistista.

Eppure, in ogni caso, non è uno sfolgorante tappeto rosso(bruno) quello che lo attende in caso di formalizzazione del ritorno. Perché, come noto, se Di Battista viene acclamato come il figliol prodigo e risulta atteso con una certa impazienza dalla base e da alcuni parlamentari per i suoi evidenti talenti nel fare campaigning elettorale, è però anche temuto, o guardato senza troppa simpatia, da una fetta significativa dei vertici. A partire dallo stesso presidente del M5S, che ha ingaggiato con l’«Elevato» una quotidiana guerra di trincea per la leadership e, seppur consapevole dell’utilità di «Ale» per migliorare lo share del «reality 5 Stelle» in crisi di ascolti (e voti), lo giudica assai (troppo) ingombrante. Da cui le presumibili frizioni (anch’esse di ritorno?) con l’uomo forte della comunicazione contiana, Rocco Casalino, che potrebbe correre alle elezioni. E persino il «dibba-raggismo», potenziale prospettiva politica di antagonismo spinto per il futuro ravvicinato del Movimento, si è incrinato nelle scorse ore, infranto dall’impuntatura di Virginia Raggi (componente del comitato di Garanzia che sta stilando il regolamento per le candidature) sull’obbligo di iscrizione da almeno sei mesi per i partecipanti alle parlamentarie. Vale a dire una “ghigliottina” che si abbatterebbe platealmente su Di Battista, il quale, peraltro, a stretto rigore, non è precisamente in sintonia esemplare con l’ultima spericolata self-fiction del Movimento autoproclamatosi d’emblée come la “vera (e unica) sinistra” attualmente esistente, e che sta occhieggiando ai rossoverdi infastiditi dall’accordo preferenziale tra Pd e Azione.

Insomma, dalla Russia (con furore) è tornato un Di Battista – ancora, al solito – inquieto ed errabondo. Del resto, mina vagante si nasce: e lui, (im)modestamente, lo nacque!

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.