La strada era il campo largo, l’astensione il problema, il reset dopo il voto

Monica Guerzoni Corriere della Sera 1 agosto 2022
Bersani: «A 70 anni do una mano, ma non mi ricandido. E lo consiglio a tutti»
Due decenni in Parlamento, con un vasto repertorio di metafore. «Quella volta tra fischi e ciambelle alla pompa di benzina di papà», e il giaguaro Berlusconi da smacchiare

 
Nel variopinto repertorio di metafore che hanno scandito la sua lunga carriera, ce n’è una che rivela lo stato d’animo di Pier Luigi Bersani in questa decisiva sfida elettorale. La «mucca nel corridoio», cioè la destra sovranista che per il fondatore di Articolo Uno è un «problema gigantesco», starebbe per prendersi il Paese. Eppure, proprio adesso, l’uomo simbolo della sinistra ha deciso di non ricandidarsi: «Perché? Me lo chiedono in tantissimi. È una cosa normale, come il tempo che passa. Ho fatto 20 anni il parlamentare da ministro, da segretario e da deputato semplice. Penso che basti. Non abbandono la politica, né la compagnia, darò una mano in altre forme. A settant’anni consiglio a tutti di avere disponibilità e non aspirazioni. Dopo queste elezioni ci sarà un reset, si aprirà una fase nuova che io mi auguro di costruzione. Noi abbiamo alle spalle l’esperienza del governo Draghi che non era un’agenda, era una occasione di organizzare i campi della politica in condizioni di sicurezza per il Paese».
Occasione sprecata?
«Il giorno dopo la caduta del Conte-due dissi “muoviamoci per stringere i bulloni di un campo progressista”. Non è avvenuto».

Il «giaguaro» Berlusconi, che lei nel 2013 voleva smacchiare, è stato decisivo per far cadere Draghi.
«Tanti mi chiedono perché non mi ricandido quando lo fa Berlusconi a 86 anni. Io a 11 facevo lo sciopero dei chierichetti, a 15 spalavo a Firenze, a 28 ero assessore regionale. Ho l’orologio in anticipo. Sul giaguaro faccio notare che lui dal 2013 non poté più fare il capo del governo».

Rimpiange di non essere andato a Palazzo Chigi?
«Certo che ci penso. Io potevo farlo il governo con Berlusconi, ma non avevo quella idea lì».

In caso di stallo lei non si augura un governo di tutti, guidato ancora da Draghi?
«Gli stalli sono un problema enorme per il Paese, perché non si arriva a governi che abbiano un progetto chiaro, coerente e condiviso».

Ha sbagliato Letta a legittimare Giorgia Meloni?
«No, non credo, ma è una destra che si sta rimpannucciando all’estremo di meccanismi regressivi più generali. Nell’ultima chiacchiera con Epifani prima che morisse eravamo alla Camera e lui mi disse “come diavolo è possibile che due riformisti come noi si ritrovano alla sinistra estrema dell’emiciclo?”. Io risposi “Guglielmo, è che si sono fatti tutti più in là”».
Fosse ancora segretario del Pd, si muoverebbe diversamente da Letta sulle alleanze?
«Non faccio nessuno sconto né all’immaturità, né agli errori gravi del M5S, ma davanti a questa destra trovo irragionevole la fatwa politica e tecnica verso Conte».

Calenda e Conte non sono incompatibili?
«Se andiamo per incompatibilità e veti non abbiamo compreso né la legge elettorale, né quale destra abbiamo davanti. Nel 2016 dissi al Corriere che al Nazareno erano così ciechi da non vedere una mucca nel corridoio. Come si fa a non vederla adesso? Presidenzialismo, autonomia differenziata, flat tax, condoni, passi indietro sui diritti civili. Non fermare Meloni, Salvini e Berlusconi significa tirare fuori l’Italia dal concerto dei grandi Paesi Ue, metterla con Ungheria e Polonia. Mi vogliono spiegare i veti reciproci?».
Morirà contiano?
«Io sono moderatamente bersaniano, ma ricordo che insieme a Conte abbiamo fatto cosucce tipo il primo lockdown in Occidente, abbiamo preso i soldi in Europa e fatto il blocco dei licenziamenti con aiuti alle imprese».

Poi però Conte ha buttato giù il governo Draghi.
«Stiamo ragionevolmente cercando alleanze con gente che ha votato cento volte contro Draghi. La novità rischia di essere l’astensione. È chi sta peggio che non va a votare e l’eccesso di diseguaglianza è una zavorra per l’economia e per la democrazia. Non credo che la funzione del M5S nell’agganciare un po’ di questo disagio sia esaurita. È importante che tutti si sentano alternativi alla destra e che non si faccia come i capponi di Renzo, che si beccavano tra loro e sono finiti in pentola».
La convince il patto tra Letta e Calenda?
«Spero si siano intesi bene. Non abbiamo bisogno di cavallerie rusticane in questa cavalcata. A volte Calenda ha dato l’impressione di essere lui nella valle di Giosafat che decide i buoni e i cattivi».

Draghi avrebbe potuto salvare il governo?
«Non so cosa avesse in testa, se lo ha fatto intenzionalmente o se ha sbagliato. Ma al Senato non ha dato l’impressione di voler tentare una ricomposizione».

Col metodo delle «lenzuolate» non sarebbe caduto?
«Non lo so. Il mio metodo da ministro dello Sviluppo era assertivo, ma avevo la maggioranza degli italiani favorevoli. Non ho mai, mai, mai mollato un tavolo. Ho liberalizzato l’alta velocità e spacchettato l’Enel senza un giorno di sciopero. Si fa fatica, ma ci vuole umiltà, pazienza e determinazione».

Le cancellerie devono temere Meloni premier?
«Prima deve vincere le elezioni, cosa non scontata. Questo Paese ha dei meccanismi di autotutela che spero scatteranno quando arriverà il giorno della riflessione su un salto così violento verso destra».

Il suo slogan elettorale?
«È ora di riprendere con forza il tema sociale, a cominciare dal lavoro. Il baluardo più forte di alternativa alla destra credo sia la lista Democratici e Progressisti, promossa da Pd, Articolo Uno, Demos e Psi. Andrò a sostenere questo listone plurale».

Partirà ancora una volta da Bettola, dalla pompa di benzina di suo padre?
«C’è ancora il filmato del Tg2. Il presidente di Confcommercio, Franco Billè, arrivò con un pullman pieno di fedayn e cartelloni con scritto “Bersani vergogna”. Mia mamma Bruna li accolse con vino e ciambelle. Un assist micidiale, se ne andarono con le pive nel sacco».

Lo racconterà nella sua autobiografia?
«Verso i 100, con calma…».

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