Tra famiglie, clan e vertici nazionali, dilaniati per il solo potere

Stefano Cappellini La Repubblica 20 agosto 2022

 

La Suburra del Pd romano: partito del potere per il potere

 

Tra rivalità e divisioni, orientarsi nella geografia della ventennale guerra di correnti locali è come entrare in un tunnel senza uscita

 

“Che poi dentro ‘sta sezione se semo gonfiati pe’ er compromesso storico, to’o ricordi Morico’?”. Gonfiati a Roma sta per picchiati, al tempo in cui nelle sezioni del Partito comunista italiano ci si scannava sulla politica, a parlare era un militante della sezione Testaccio ripreso da Nanni Moretti nel documentario La Cosa, novembre 1989, dibattito congressuale su: restare comunisti o diventare cosa? Diventare cosa. Ormai nel Pd romano e nelle sue appendici laziali – da lustri teatro di faide, intrighi, scandali, “ciarpame”, parola dell’indigeno Roberto Morassut – si gonfiano solo lontano dalle sezioni, e per questioni poco politiche.

Delle sezioni, comunque, è rimasto poco. Quando nel 2015 l’ex ministro Fabrizio Barca fu incaricato dall’allora commissario romano Matteo Orfini di redigere un dossier sui circoli dem della Capitale il responso fu devastante: tessere gonfiate, sezioni fantasma, “una su quattro è infetta”, scrisse Barca, e le tre ancora salvabili non gli impedirono di arrivare a queste conclusioni: “Partito cattivo e pericoloso, che lavora per gli eletti anziché per i cittadini e subisce inane le scorribande dei capibastone”. All’epoca del congresso che portò poi Nicola Zingaretti alla segreteria nazionale, era l’autunno del 2018, si scoprì che un dirigente con un incarico in Regione, Massimiliano Baldini, aveva comprato da solo le tessere di tre sezioni, bonificando 2050 euro. “Avevo la delega”, si giustificò.

Lontani i fasti della stagione di Rutelli sindaco, poco prima del report Barca era scoppiata Mafia capitale, l’incerto Ignazio Marino a districarsi in mezzo a un Pd investito di arresti e infine di condanne, con il ras degli appalti Salvatore Buzzi che negli interrogatori ironizzava sulle correnti in guerra: “Ormai mi toccava paga’ due Pd”. Ma a Roma, senza sapere ancora delle inchieste da Suburra, gli elettori Pd camminavano già rasenti al muro, e non solo loro. “Nel partito romano ci sono associazioni a delinquere”, denunciò con preveggenza nel 2013 Marianna Madia, pur capace di mantenere una candidatura blindata in zona a ogni cambio di cosca o presunta tale. Addirittura quattro anni prima era stato Goffredo Bettini, per anni il dirigente più influente in città, a sentenziare: “Il Pd romano è corrotto”. Fosse solo quello. A un certo punto un deputato tra i più discussi e inquisiti finì sotto inchiesta per omicidio: il suo braccio destro era sparito nel nulla e lui fu sospettato di averlo ucciso e occultato il cadavere, ma almeno da questa accusa fu prosciolto. “Il Pd a Roma va bonificato”, disse Orfini, come le paludi pontine, ma senza un possibile duce, perché Roma non vo’ padroni, ci si scontra, ci si accorda, ci si consocia, si sgarra e si ricomincia il giro. Potere per il potere. ‘Mpicci e ‘mbrogli, direbbe Mandrake-Proietti. Un anno fa scoppiò persino Concorsopoli: venne fuori che a una selezione per entrare in Regione i vincitori erano stranamente tutti militanti o dirigenti locali del Pd. Il presidente del Consiglio regionale, Massimo Buschini, si dimise.
Orientarsi nella geografia della ventennale guerra di correnti locali è come entrare in un tunnel fuligginoso e senza uscita: in origine fu lo scontro tra dalemiani e veltroniani, poi tra bettiniani e dalemiani, quindi con la fondazione del Pd arrivarono a metterci del loro gli ex democristiani, gli zingarettiani fecero l’accordo con un pezzo di dalemiani, gli altri dalemiani litigarono con D’Alema. Claudio Mancini, la mente e il braccio del sindaco Roberto Gualtieri, è uno dei veterani di questa guerra, Bruno Astorre, il segretario regionale, sta con Dario Franceschini. È sulla designazione del possibile successore di Zingaretti alla presidenza della Regione che si è rimessa in moto la macchina dello scontro. Astorre sostiene Daniele Leodori, attuale vicepresidente, ma soprattutto osteggia Alessio D’Amato, assessore alla Salute che ha dalla sua il successo della campagna vaccinale. Un altro pezzo di Pd ha lavorato a riportare in politica l’ex democristiano Enrico Gasbarra, già presidente margheritino della Provincia ai tempi in cui gli Usa di George W. Bush invadevano l’Iraq di Saddam, ora le sue quotazioni sono in discesa.
Nel frattempo le ricette per curare il malato romano si sono affastellate sempre più simili a vuote parole d’ordine: “Torniamo nelle periferie!”. Nel 2018 il reggente Maurizio Martina, a capo del partito dopo Renzi e prima di Zingaretti, decise di riunire a Tor Bella Monaca una delle sue prime segreterie. Grazie ai buoni consigli del navigatore, una dozzina di membri dell’organismo nazionale si riunì a porte chiuse nella libreria del quartiere e poi ognuno tornò da dove era venuto. Il segretario del circolo di zona commentò: “Questa non è la vera Torbella ma sono contento che siano venuti qui, vediamo se tornano tra sei mesi”. Li stanno aspettando. Martina, nel frattempo, è andato a lavorare alla Fao: è più facile sconfiggere la fame nel mondo.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.