La democrazia dei migliori, non quella degli oligarchi autoreferenziali

Umberto De Giovannangeli il Riformista 25 Agosto 2022
I partiti sono una oligarchia autoreferenziale
“I politici sono diventati imprenditori, non guidano più i cittadini ma li assecondano”, intervista a Sergio Fabbrini

 

Tra gli studiosi dei sistemi politici e istituzionali, Sergio Fabbrini è uno dei più autorevoli e affermati a livello internazionale. E’ Professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido Carli, dove ha fondato la School of Government e l’ha diretta dal 2010 al 2018. E’ Recurrent Visiting Professor di Comparative and International Politics presso la University of California di Berkeley (USA). Tra i suoi numerosi saggi, ricordiamo il recente Democrazie sotto stress. Europa Italia America (Il Sole24Ore, 2022).
“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico. Scarsa democraticità, debolissimo radicamento sociale, verticalizzazione del potere, concentrato nelle mani dei segretari, imposizione ai votanti non solo di liste nelle quali non si può scegliere, ma anche di candidati con deboli relazioni con i collegi, possibilità di presentare la propria candidatura in più collegi, dando così la possibilità di scelte individuali dei vincitori, perché la sorte dei numeri due dipenderà dalle scelte fatte dai numeri uno”. Cosi Sabino Cassese in una intervista a questo giornale.

Lei come la vede?
Sicuramente è così. Concordo con Sabino Cassese: i partiti sono una oligarchia autoreferenziale. Dato che tutti sembrano essere consapevoli di questa degenerazione del sistema partitico italiano, c’è da chiedersi perché non si riesce a cambiare innanzitutto il sistema elettorale e, assieme ad esso, il sistema istituzionale. La domanda cruciale a questo punto è perché i partiti sono abbarbicati a delle regole elettorali ed istituzionali che porteranno alla loro ulteriore degenerazione.
Questa è la domanda cruciale. E la sua risposta qual è?
Dipende moltissimo dagli approcci che si adottano. Secondo un approccio razionalista, la risposta alla domanda è: perché gli incentivi che i politici debbono seguire vanno tutti nella direzione della conferma dello status quo. Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico. Ormai gli eletti non rappresentano più gli elettori nel senso tradizionale, ma “usano” gli elettori per promuovere i propri interessi di eletti. Questo spiega anche perché – come ha ben rimarcato Sabino Cassese nell’intervista al suo giornale – stia aumentando sempre di più il numero di coloro che non vanno a votare. C’è un approccio razionale che dice che i politici eletti guardano al breve periodo e in questo arco di tempo limitato non hanno interesse a cambiare. Anzi, quelli che vinceranno le elezioni del 25 settembre, anche se fossero consapevoli dei disastri di questo sistema elettorale, non cambieranno mai la legge elettorale e il sistema istituzionale che li ha portati in parlamento. Ma questa non è l’unica interpretazione della politica.

E quale altra, professor Fabbrini?
Certamente nella politica ci sono gli interessi degli eletti, ma la politica ha anche un compito democratico che va ben oltre la cura dell’interesse immediato. E qui un approccio non economicista né razionalista ma un approccio politico dovrebbe spingere a pensare che quelle regole elettorali e quel sistema istituzionale dovrebbero essere messi in discussione dalla rete di coloro che stanno tra gli eletti e gli elettori…

Rappresentata da chi?
Dai leader intermedi. Gli opinion leader, rappresentanti delle associazioni, leader sindacali e imprenditoriali. Gli eletti rispondono solamente a se stessi se non hanno il fiato sul collo che proviene non dai cittadini in senso astratto. I cittadini non possono decidere queste questioni. Il fiato sul collo dovrebbe essere quello dei giornalisti della stampa e della televisione, dei leader sindacali e imprenditoriali, di quella società organizzata che non appartiene al mondo degli eletti ma è molto più responsabilizzata rispetto al mondo degli elettori. Ed è questo il punto da considerare. Il fatto che noi siamo di fronte ad una dequalificazione, squalificazione, di questa rete intermedia. I vari rappresentanti degli interessi pensano ad entrare nel mondo degli eletti e non a difendere l’agenda nazionale del Paese. La stampa è per molti aspetti suscettibile alle correnti predominanti. Non assolve un compito di critica verso queste correnti. Improvvisamente scopriamo che la leader di Fratelli d’Italia è un personaggio di grande capacità, quando fino all’altro ieri nessuno la prendeva in considerazione. E’ questo atteggiamento di scarsa competenza, di mancanza non dico di rigore morale che forse sarebbe chiedere troppo, ma quanto meno di rigore intellettuale, della classe dirigente diffusa che, a mio avviso, è il grande problema del Paese. Perché quando gli eletti non hanno il fiato sul collo della classe dirigente in senso lato del Paese – dai giornalisti ai docenti, dai sindacalisti agli imprenditori – è evidente che poi pensino ai loro interessi immediati. E’ lì che va cercata la crisi, il deficit della democrazia italiana. Io eviterei la lettura di Benedetto Croce per cui il Paese ha la classe politica che si merita. No, non è così. La classe politica non è necessariamente lo specchio del suo Paese, anzi non lo dovrebbe essere in una democrazia. Non penserei che per cambiare questo sistema politico bisogna cambiare la cittadinanza. Questo non esiste. I cittadini di Avellino non sono molto diversi dai cittadini di Brighton o dell’Oregon…Non c’è una differenza sostanziale, secondo me e secondo i dati con cui io lavoro. La differenza che cambia le democrazie è lo spessore e la qualità di quella classe dirigente diffusa che diventa una interlocutrice per gli stessi politici.

Guardando agli schieramenti in campo, e in particolare a quello del centrosinistra. Si è parlato e scritto di campo largo, di campo aperto. Alla fine è stato un campo minato. Il segretario del Partito democratico aveva prima puntato ad un’alleanza strategica con i 5Stelle di Giuseppe Conte per poi tentare con Azione di Carlo Calenda. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come lo spiega?
Non ritengo di avere le competenze per entrare nello specifico partitico. Mi limito a fare alcune considerazioni. La prima è questa: chiedersi, dal punto di vista della cultura politica, quali fossero le ragioni che potevano giustificare un accordo con i 5 Stelle. Secondo me erano ragioni deboli in sé e non rivelatesi tali per la gestione perdente che si è fatta di esse. Il Movimento 5 Stelle rappresenta l’epifenomeno di un sentimento popolare che noi chiamiamo populismo, in base al quale la democrazia è considerata quel regime che è a pura disposizione dell’uomo qualunque. Io ritengo che il problema non doveva essere quello di agganciare il populismo ma contrastarlo.
Contrastarlo, come?
Facendo affidamento innanzitutto sulle competenze, sulla coerenza di chi vuol fare funzionare davvero la democrazia. Per molti aspetti questo non è avvenuto. E’ stata la realtà che ha sconfitto il populismo e non tanto una battaglia politica sul campo, tra populisti e anti.
La seconda questione è che il populismo è presente trasversalmente, anche all’interno del Partito democratico. E’ sufficiente che Giuseppe Conte oggi faccia qualche riferimento al salario per trovare qualcuno che palude alla “svolta laburista” dei 5Stelle. Se il riferimento al salario minimo trasforma il populismo in un laburismo, vuol dire che le categorie che si adottano sono veramente dilettantesche, superficiali.
Il populismo è presente anche in ampi settori del centrodestra, non solamente del centrosinistra, ed è legato all’idea che gli eletti debbano essere uno specchio degli elettori. Di nuovo, così non è. Non deve essere. Il compito degli eletti è guidare gli elettori, non di rispecchiarli, come ci ha insegnato Giovanni Sartori. La rappresentanza non è “specchio”. La rappresentanza è guida. Pensiamo ai “Discorsi del camino” di Franklin Delano Roosevelt: chi fa politica ha il compito di educare i cittadini, non di assecondarli. Credo però che esista una spinta dentro il Partito democratico che vede nei 5 Stelle dei possibili alleati, anche in futuro, all’interno del Parlamento. C’è poi qualcosa che io francamente faccio fatica a spiegare, e ancor più a giustificare, quando parlo con colleghi stranieri…
Vale a dire?
Come è stato possibile che il centrosinistra non si sia fatto carico del governo Draghi. Come è stato possibile, quando è stato messo in discussione il governo Draghi, anche all’interno del centrosinistra sia avvenuta una presa di distanza di settori consistenti all’interno del Pd, per non parlare di chi ha sempre votato contro il governo Draghi, come Sinistra italiana e Verdi. Io ritenevo e continuo a essere di questo avviso, che anche dal punto di vista delle strategie elettorali sarebbe stato molto più efficace per il Pd e il centrosinistra costruire sulla cosiddetta “Agenda Draghi” e fare un campo, non largo né stretto né minato, di coordinamento tra le forze che avevano sostenuto il governo Draghi. Allargarsi immediatamente a forze che non hanno sostenuto il governo Draghi e chiudersi a forze, come Italia viva, che invece avevano sostenuto Draghi, mi è sembrata una scelta discutibile, anche dal punto di vista dei risultati elettorali.

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