La guerra di parole tra Biden e Trump, nell’ America armata

Guido Moltedo il Manifesto 6 settembre 2022

 

Biden, il piano inclinato dello scontro diretto con Trump

 

L’escalation della guerra di parole potrebbe portare a forme di guerra civile: girano negli Usa 393 milioni di armi da fuoco, solo nel 2022 ci sono state 450 stragi e 40mila vittime

 

Perché Biden s’avventura nel campo di gioco preferito da Trump, dove il tycoon di Mar-a-Lago è senza dubbio il numero uno? Lo scontro diretto, personale, senza remore e senza rete, del duello con colpi bassi a volontà: non è il terreno in cui eccelle Trump?

Va detto che Biden sta dimostrando di non essere da meno, in quanto a grinta e a capacità di assestare colpi duri. Certo, se il presidente in carica conserva una postura politica nei suoi attacchi pur pesanti – dà apertamente del semi-fascista e del sovversivo all’avversario – l’ex-presidente predilige la sparata volgare, la contumelia, con toni urlati, tra il vittimismo e il vendicativo, divertendosi un mondo a eccitare i fan con il suo repertorio delirante.

Il ring è lo stato natale di Biden. La settimana scorsa, la Pennsylvania è stato il teatro del primo match tra i due pesi massimi, altri seguiranno, come si fosse in vista di un’elezione presidenziale e non di un voto politico di medio termine, che dovrebbe vedere in primo piano soprattutto i partiti. La dimensione nazionale della competizione politica, e quindi tra i due leader massimi, ha ormai preso il sopravvento su quella locale, con il crescere esponenziale del conflitto ideologico rispetto ai conflitti specifici territoriali.

IL DISCORSO DI BIDEN a Filadelfia e il comizio seguente di Trump a Wilkes-Barre segnano dunque una svolta, soprattutto da parte del presidente democratico. Prende atto, Biden, dell’impossibilità, specie in clima elettorale, di qualsiasi tentativo di riconciliazione tra le due parti dell’America che sempre più s’allontanano l’una dall’altra in un crescente odio reciproco, contendendosi il controllo del paese con l’idea sempre più esplicita, da parte repubblicana, di imporre il proprio predominio, anche sovvertendo le regole basilari che hanno finora governato l’avvicendamento di maggioranze diverse a Washington. Da parte sua, Trump conferma e rilancia il suo “registro” politico, l’unico d’altra parte che conosce, alzando ulteriormente i toni, anche per obbligare a stare a cuccia quel poco che resta del Grand Old Party.

BIDEN È ARRIVATO a definire semi-fascista non solo Trump ma anche i suoi sostenitori. La sua successiva marcia indietro parziale non cancella però i dati su cui è basata la sua offensiva nei confronti di una parte consistente dell’elettorato, non più “semplicemente” repubblicano ma convintamente trumpista. Il 73 per cento dei repubblicani ha un’opinione positiva di Trump, il 72 per cento è favorevole a una sua ricandidatura presidenziale nel 2024. L’ala più trumpista, i cosiddetti Make America Great Again Republicans, che egemonizzano ormai il partito, rappresenta “un estremismo che minaccia le fondamenta stesse della nostra repubblica”, ha detto Biden nel suo discorso a Filadelfia martedì scorso.

Alzando il livello dello scontro, Joe Biden fa un’operazione rivolta al Partito democratico, ai suoi sostenitori, agli elettori, un cambio di passo da tempo richiesto dalle correnti di sinistra, assumendo decisamente i panni del condottiero di una metà dell’America contro l’altra.

È UNA PARTE CHE corrisponde poco alla sua indole di mediatore e di moderato, anche se è sempre stato un oratore pugnace. Ma sta funzionando. I sondaggi sembrano dar ragione, finora, alla sua svolta. L’approvazione della sua condotta presidenziale ha registrato un recupero significativo, dai livelli molto bassi segnati a luglio.

La scelta del confronto duro si svolge su un piano pericolosamente inclinato. La ferita del 6 gennaio 2021 è ancora aperta, chi indaga – gli stessi agenti della Fbi e i magistrati – sono oggetto di serie minacce personali, anche di morte, da parte dei MAGA Republicans e di formazioni come i Proud Boys e gli Oath Keepers, aizzati da Trump e dai suoi cloni locali. Secondo un sondaggio del Public Religion Research Institute quasi un terzo dei repubblicani concorda con l’idea secondo cui, «poiché le cose sono andate talmente fuori dei binari, i veri patrioti americani potrebbero dover far ricorso alla violenza per salvare il paese».

L’escalation della guerra di parole potrebbe portare a forme di guerra civile, non metaforica, in un paese nel quale girano 393 milioni di armi da fuoco e nel quale nel corso di quest’anno ci sono state 450 stragi, quarantamila tra morti e feriti gravi causati da armi da fuoco. Anche in aree degli Usa un tempo con scarsa presenza di proprietari di armi da fuoco, è frequente ormai il suono delle sirene di ambulanze e auto di polizia chiamate per episodi di sangue legati alla crescita del commercio e del possesso di armi micidiali, compresi fucili d’assalto e mitragliatori.

LE MISURE DI CONTENIMENTO del fenomeno, pur prese da questa amministrazione, si scontrano con la tendenza irrazionale alla corsa all’acquisto di armi dopo ogni strage, un vortice che si stenta a capire e a fermare. Una guerra più difficile da fermare di quella che vede coinvolta l’America in Ucraina ma che – al contrario di quella domestica – può pesare sul voto di medio termine, con l’inflazione che cresce e con una parte consistente dell’opinione pubblica che preme per il disimpegno. E sulla quale fa presa Trump, critico anche nel comizio di Wilkes-Barre nei confronti della scelta di Biden di scontrarsi con Putin. Così saranno, di nuovo, le rispettive relazioni del presidente e dell’ex-presidente con Putin a condizionare la battaglia del prossimo novembre e a determinare la seconda metà del mandato presidenziale di Joe Biden?

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.