Possiamo cambiare anche gli ordini culturali, il Me Too libera tutti

Chiara Valerio La Repubblica 15 settembre 2022
Me Too, una ribellione che ci ha liberate
Il 5 ottobre 2017 nasceva il movimento femminista globale contro le molestie e le violenze sessuali. A cinque anni da quella protesta, ecco perché è cambiato tutto

 

Tutte le donne che conosco, me compresa, hanno subito almeno una molestia. La molestia ha a che fare con qualcuno che abusa di una confidenza fisica o linguistica che non gli è stata accordata, e in questo abuso, quasi sempre, si annidano il ricatto, la vergogna, e l’impunità derivante dalla certezza che il mondo sia in un modo e non in un altro.
Come si evade da un mondo che si suppone sempre in un modo, nel quale la cultura delle cose viene chiamata natura delle cose?

Essere una bambina, nel sudpontino comunque intellettuale dove sono nata alla fine degli anni Settanta del Novecento, non era avventuroso. Le bambine dovevano stare attente. Non potevano uscire da sole, era loro sconsigliato essere scapestrate, le gonne erano l’abito adatto a qualsiasi occasione anche se così era complicato andare in bicicletta e arrampicarsi sugli alberi. Per essere una bambina amata o addirittura ammirata era necessario stare ferme, essere in ordine, sedere tenendo le gambe composte, non accettare caramelle o altro da sconosciuti. Sorridere sì, ma non troppo. Dare confidenza sì, ma con modo.

Quando poi si sopravviveva all’infanzia, si diventava signorine che significava, essenzialmente, d’estate e in un posto di mare, rimanere corrucciate sotto l’ombrellone, o sulla battigia, con indosso il pezzo di sopra del costume e pantaloncini più o meno lunghi, più o meno colorati, ad aspettare pazienti che quel sangue smettesse di scorrere. Essere bambine e signorine era molto noioso, o comunque io così lo percepivo, nonostante il sangue assonasse a battaglie che, mi diceva la Storia — compresi i fumetti di Paperino e Topolino — non erano affare mio. E la cosa non riguardava me, riguardava il mio essere femmina. Insopportabile, uno nasce e invece di acquisire un carattere, acquisisce una categoria. Chi vuole essere una categoria? Nemmeno Kant.

I desideri si riproducono attraverso le loro immagini, scrive Vivant Denon in Senza Domani (Adelphi, trad. E. Marchi) e così io volevo essere un bambino. Negli anni Ottanta volevo i videogiochi sparatutto, e lo skateboard, salivo sul canotto con mia sorella Silvia e remavo fino a non vedere più la riva, sfinita. Sono certa non c’entrassero niente sesso o genere. C’entrava l’avventura, l’idea che il mondo non fosse un posto da temere, ma da scoprire. C’entrava l’evidenza che avrei anche potuto fallire nella conquista di terre e conoscenze (Ponza era irraggiungibile a remi nel tempo concessomi a mare), ma questo fallimento costituiva esso stesso una avventura. Avventura significa possibilità di racconto. Vantarsi, inventare, immaginare. Volevo essere un bambino per accedere a libertà, disordine, l’uscire soli e anche, accettare, seppur con moderazione, caramelle da uno sconosciuto. Tutto questo non riguardava la mia famiglia di origine dove i generi erano meno forti delle categorie e mio padre e mia madre non esponevano o reclamavano ruoli, ma era l’intorno. C’eravamo immersi.

Mia nonna Tina, una degli esseri umani più intelligenti che abbia incontrato, non aveva potuto prendere la patente, perché mio nonno diceva che le donne non sapevano guidare la macchina, e non aveva potuto terminare gli studi perché suo padre le aveva detto che non poteva prendere il diploma dal momento che sua sorella più grande aveva rinunciato.

Le donne erano ordinate e questo non aveva niente a che fare con l’estetica, anche se poteva sembrare, ma con una forma del mondo. Le donne stavano nell’ordine che gli uomini avevano loro assegnato. O per loro non c’era posto. Sante, pazze, isteriche, puttane, cagne, altri termini, che variano secondo l’epoca storica, il gusto, la moda. Ma anche bellissime, fantastiche, fascinose, fate, madonne, altri termini, che variano secondo l’epoca storica, il gusto, la moda.
L’ordine può far comodo. L’ordine — ed è la sua più infida caratteristica — ti fa credere che senza l’ordine non esiste possibilità di futuro.

Che c’entra questo con le molestie che tutte le donne, me compresa, hanno subito? Che c’entra col #metoo? C’entra che, come dice Fran Leibowitz (Pretend it’s a City di M. Scorsese, Netflix), Da Eva fino al #metoo per le donne non era cambiato niente.
Il #metoo ci ha rivelato perché siamo un Occidente tanto privo di immaginazione. Sappiamo che essere uomo o donna, in un mondo così, inibisce sorpresa, rivoluzione, rende convenzionali e prevedibili, si subisce o agisce violenza, non si può fare quasi altro, chi sfugge con grande fatica comunque resta in mezzo in qualcosa che non è (non è, non è) un ordine naturale, ma culturale. E ciò è insopportabile. Abbiamo cambiato molti ordini naturali, possiamo cambiare pure quelli culturali.
Il #metoo libera tutti. Il #metoo ha chiarito che l’avventura non è solo delle bambine marinaio, ma pure di quelle fatine azzurre e rosa e d’oro, o di bambine e bambini che si sentono gufi. Denunciare e combattere la violenza è sempre una forma di immaginazione.

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