L’ambiguità sull’Europea di Salvini e Meloni, gli amici di Orban

Francesco Bei La Repubblica 16 settembre 2022
Il cigno nero vola ancora sull’Europa
Il voto contrario a Bruxelles di Lega e FdI sull’Ungheria e le prospettive in vista delle elezioni del 25 settembre

 

Il cigno nero si è materializzato ieri nel voto contrario di Lega e FdI al rapporto del Parlamento Europeo che indica l’Ungheria come una “minaccia sistemica” ai valori fondanti dell’Ue.

Significa che la maggioranza degli eurodeputati, compresi quelli del Partito popolare europeo, hanno smesso di fingere che quella magiara sia una democrazia e per questo la definiscono, con un efficace ossimoro, una “autocrazia elettorale”. Vale a dire che le elezioni ci sono ugualmente, ma questo non è sufficiente a connotare Budapest come una “piena democrazia”.

Del resto anche nei regimi comunisti dell’Est, nelle Repubbliche democratiche asservite a Mosca, formalmente si tenevano elezioni pluripartitiche. Era un simulacro di democrazia, esattamente come quella ungherese, dove Viktor Orbàn è in carica da ben 12 anni e la sua recente rielezione è stata salutata con squilli di tromba dai suoi amici italiani Salvini e Meloni. Una autocrazia che si sorregge sulla propaganda di Stato, la limitazione della libertà di stampa, l’asservimento del potere giudiziario, la corruzione, una feroce campagna contro tutte le minoranze, contro i gay, i proclami sulla “razza ungherese” e sulla educazione cristiana. Fino all’agghiacciante obbligo, alle donne che vogliono abortire, di ascoltare il battito del cuore del feto.
Il fatto che, a dieci giorni dal voto, i due partiti di destra italiani non si facciano alcun problema a mettersi di traverso alla stragrande maggioranza del Parlamento europeo è un segnale chiarissimo della direzione di marcia. Giorgia Meloni, l’abbiamo scritto più volte, in questa campagna elettorale ha finora tenuto un registro moderato. Salvo un paio di scivoloni – come il video della donna stuprata e la minaccia (“è finita la pacchia”) a Bruxelles – è stata molto attenta a non commettere errori e a non spaventare l’elettorato con posizioni estreme.

Ha chiarito il suo no allo scostamento di bilancio, in linea con Draghi, senza temere il frontale con Salvini. Ha bloccato con rapidità ogni effervescenza nostalgica della sua base. Ha detto più volte sì al proseguimento delle sanzioni alla Russia e all’invio di armi alla resistenza ucraina. Ha tenuto, a differenza di Salvini, un profilo di ineccepibile atlantismo. Eppure, alla prima vera prova europea, è venuta fuori la natura profonda di Fratelli d’Italia. Che non è il fascismo, salvo che non lo si intenda nella versione metapolitica di Umberto Eco.

 

Quella di Fratelli d’Italia è una destra diversa dal passato, allo stesso tempo filo-atlantica e anti-europea. In questo si discosta dal vecchio Msi, che coltivava, specie nelle frange giovanili da cui proviene Meloni e l’attuale gruppo dirigente di FdI, un sentimento di ostilità agli yankee. Non a caso i modelli e le alleanze vanno ora dai polacchi del Pis ai Tory britannici della Brexit fino a Trump, il nemico numero uno dell’unità europea ai tempi della sua presidenza. È una destra euroscettica, nazionalista fino allo sciovinismo, profondamente contraria a ulteriori passi in senso federale dell’Unione, ostile a quell’estensione del voto a maggioranza che sarebbe l’unico antidoto alla paralisi istituzionale che spesso affligge l’Ue.
In campo europeo, ha messo in guardia Giuliano Amato accomiatandosi dalla Corte costituzionale, “la tentazione di affermare il primato del diritto nazionale su quello comune europeo non è solo di Polonia, Romania e Ungheria”. Amato ha detto bene, perché all’elenco manca (ancora) l’Italia che hanno in mente Meloni e Salvini.

Non a caso proprio Fratelli d’Italia presentò all’inizio della legislatura un disegno di legge costituzionale per modificare l’articolo 117 della Costituzione nella parte in cui prevede che lo Stato eserciti la sua potestà legislativa nel rispetto dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Un grimaldello per far saltare ogni parvenza di unione federale che si fonda, per l’appunto, sul pilastro della preminenza del diritto comunitario su quello interno. Il paradosso è che tutti questi strappi andrebbero anzitutto a danno dell’Italia. Che ha bisogno dell’Europa per una politica di solidarietà e redistribuzione dei migranti, che ha bisogno dell’Europa per i miliardi del Pnrr e dello scudo della Bce contro i fondi speculativi, che ha bisogno dell’Europa persino per il “blocco navale” alias nuova missione Sophia che sogna Meloni.

Senza contare, come notava ieri Dario Di Vico sul Foglio, che la Polonia è una nostra concorrente diretta sulle delocalizzazioni, mentre il governo di Budapest è “filorusso in politica e filocinese in economia”. Un bel problema per una leader che ostenta la sua fede atlantica.

Si torna dunque al cigno nero. Quando a Sergio Mattarella gli alleati anti-Ue Lega e M5S, con in testa l’Italexit, proposero il professor Savona come ministro dell’Economia, il capo dello Stato esercitò in pieno il potere conferitogli dall’articolo 92 della Costituzione e bloccò la nomina. Attirandosi l’accusa di attentare alla Costituzione e alla sovranità popolare.

Ma cosa accadrebbe se il 25 settembre gli italiani dessero la maggioranza a una coalizione dove i due partiti egemoni puntano – come accaduto ieri – allo strappo con Bruxelles per portare l’Italia a Est? Potrebbe da solo Mattarella fare argine a queste spinte se si dovessero presentare?

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