Il fantasma di piazza del popolo: pareggio al Senato

Carmelo Lopapa La Repubblica 23  settembre 2022
Il pareggio al Senato l’incubo di Giorgia: “Rivogliono l’inciucio”
Il timore che l’ascesa del M5S inchiodi la futura maggioranza a quota 102-103 a Palazzo Madama

 

È un brivido che attraversa la piazza, che sale sul palco azzurro “nazionale”, che scende giù nel retro e mobilita i capannelli della destra dei nuovi potenti. C’è una sottile ma crescente paura che innervosisce Giorgia Meloni in spolverino beige e sneaker. Viene confessata a Francesco Lollobrigida, Guido Crosetto, Fabio Rampelli, in piedi lì accanto a lei: “Qualcosa non torna, se sbandiamo all’ultimo tornante rischiamo la beffa, non possiamo permetterci il pareggio al Senato”.

Eccolo l’incubo della vigilia che paralizza in queste ore l’aspirante premier. La crescita esponenziale e imprevista dei Cinquestelle di Conte al Sud rischia di far saltare i piani, di interrompere una marcia che sembrava trionfale. Che effetti avrà sui collegi uninominali la scalata dei grillini in Campania e in Puglia, in Sicilia e in Sardegna? Stanno rosicchiando consensi preziosi al Pd o piuttosto al centrodestra? Se i candidati di Conte dopodomani dovessero spuntarla anche solo in una decina di sfide al Senato – questi i calcoli fatti al pallottoliere di Piazza del Popolo – a Palazzo Madama l’asticella della maggioranza potrebbe fermarsi a quota 102-103 (sui 200 parlamentari che comporranno ormai quella camera). Il governo Meloni nascerebbe, certo, ma zoppo. Alla mercè di un paio di senatori della “ridotta” centrista di Toti, Lupi e Brugnaro che diventerebbero indispensabili per la sopravvivenza della maggioranza. Addio sogni di gloria, allora. L’assegnazione delle deleghe ministeriali passerebbe attraverso una trattativa estenuante, ogni voto di fiducia in aula si risolverebbe in un Vietnam.

È la ragione per la quale la leader di Fratelli d’Italia lancia nel suo intervento conclusivo dal palco l’allarme dell’ultimora, accusando gli avversari: “Sono pronti a rifare di nuovo inciuci, dichiarino le alleanze prima del voto”.

Ma se è per questo, la trattativa per la formazione di un eventuale esecutivo di centrodestra sta minando la già precaria compattezza fra i leader ancora prima che si aprano le urne. L’ultima ingenuità Matteo Salvini l’ha commessa giusto al fianco dell’insofferente alleata: ha finito col parlare dal palco ancora una volta da ministro dell’Interno in pectore. Spingendosi perfino oltre, qualche ora dopo, nel salotto di Porta a Porta: “Tornerò a bloccare gli sbarchi, saranno reintrodotti i decreti Sicurezza e entrerà in Italia solo chi ha il permesso”. Ora, se c’è una certezza che Giorgia Meloni ha maturato da qualche settimana a questa parte è che l'”ingombrante” alleato “non andrà mai al Viminale”. Non nell’esecutivo che lei forse si ritroverà a guidare. “La delega alla sicurezza della Nazione”, come ripete con enfasi patriottica ai fedelissimi, non intende cederla ad altri partiti, soprattutto se FdI viaggerà sui livelli percentuali registrati dagli ultimi sondaggi. Ancor meno alla Lega se precipiterà a soglie percentuali lontanissime dal passato. E poi, il processo Open Arms di Palermo a carico dell’ex ministro dell’Interno (accusato di sequestro di persona) renderebbe problematico l’affidamento dell’incarico anche da parte del Quirinale, è il ragionamento che fanno nell’entourage meloniano. Terza e non ultima ragione del veto, il pessimo biglietto da visita con il quale la prima premier donna si presenterebbe al cospetto delle Cancellerie europee, se dietro la scrivania che è stata di Giolitti dovesse tornare l’uomo dei confini chiusi e delle continue liti con i partner Ue sui rimpatri. Anche perché i presupposti non sono dei migliori: la sortita di ieri della presidente della Commissione Von der Leyen (“Se dopo le elezioni in Italia va male, abbiamo gli strumenti”), la dice lunga sul clima che già si respira a Bruxelles.

Ad ogni modo, più Salvini parla di lista dei ministri “ormai pronta” (Bongiorno alla Giustizia, Centinaio all’Agricoltura e ovviamente lui medesimo al Viminale), più l’alleata si irrigidisce. Finché ieri non ha detto anche lei di averne pronta una sua, di lista.

Il colloquio che i due hanno avuto sotto il palco di Piazza del Popolo durante l’intervento di Maurizio Lupi è durato alcuni minuti. Visi tesi, poi un sorriso tirato. Non si è concluso benissimo – raccontano – quel faccia a faccia improvvisato, quando Silvio Berlusconi era andato ormai via per rientrare nella sua villa sull’Appia antica. “Non ci sono donne o uomini soli al comando, la squadra si costruisce insieme”, le ha mandato a dire qualche ora dopo il capo leghista. E poi chi l’ha detto che il governo lo guiderà davvero Giorgia Meloni. “Io veramente penso a un governo Salvini”, sbotta lui, fingendo di ignorare i nuovi rapporti di forza nel centrodestra.

Quel che l’alleata confida solo a pochissimi tra i suoi, è che converrà attendere, perché dopo il 25 settembre non è neanche detto che il “Capitano” sia ancora il segretario del suo partito. Una Lega clamorosamente precipitata a una cifra, per esempio, aprirebbe scenari al momento imponderabili. Domenica sera, del resto, è lì a una manciata di ore.

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