La sbandata di Letta su l’effetto Draghi e tutti gli errori a seguire

  

Andrea Carugati il Manifesto 25 settembre 2022
I troppi errori di Letta tra Nato, Orban e «agenda Draghi»
 
Il segretario dem come Bersani nel 2013 schiacciato dalla fedeltà al premier tecnico. Il divorzio mal spiegato con i 5S, l’accrocchio fallito con Calenda, la polarizzazione a due contro Meloni. Sotto il 20% il partito rischia l’implosione

 

Enrico Letta non dev’essere un tipo scaramantico visto che ha paragonato la sua sfida della vita al referendum sulla Brexit del 2016. Allora andò malissimo per i britannici che volevano restare nella Ue, il premier Cameron si giocò la carriera politica. E oggi Letta rischia la stessa fine.

IL CALVARIO DEL LEADER è iniziato il 20 luglio, quando Mario Draghi ha preso solo 92 voti di fiducia in Senato. Da quel giorno tutto quello che poteva andare storto è andato storto, come nella legge di Murphy. Prima il divorzio dal M5S di Conte, che al Nazareno consideravano ormai un fenomeno in dissoluzione, e che non è stato mai davvero spiegato in modo convincente.

Poi l’alleanza con il turboliberista Calenda, presentata con enfasi come un «patto di governo», sulla base della famosa (e fumosa) «Agenda Draghi», che poi lo stesso premier ha disconosciuto. Il tutto nell’idea, che è stata vera solo nei primi giorni della crisi, che gli italiani fossero furiosi per la caduta del governo, cosa che si è rivelata falsa visto che oggi i partiti che non hanno mai votato la fiducia a Draghi e quelli che l’hanno fatto cadere supereranno il 60% dei voti.

CON LO STRAPPO DI CALENDA, a inizio agosto, il Pd si è ritrovato con una coalizione strettissima, Sinistra e Verdi, +Europa e l’invisibile listino di Di Maio (molto sopravvalutato dai dem). Una poco gioiosa utilitaria da guerra, per parafrasare la coalizione di sinistra del 1994, che si è trovata a fronteggiare la corazzate delle destre unite con una ventina di punti di stacco nei sondaggi.

Dopo aver ipotizzato un progetto macroniano e liberale con Calenda, nel segno dell’europeismo e dell’atlantismo spinto, il Pd ha partorito un programma progressista, con significativi accenni laburisti sul mercato del lavoro (contro la precarietà), ambiente, scuola, ius scholae e matrimoni Lgbtqi+. Programma che poteva costituire la piattaforma per una campagna d’attacco sinistra, che però non c’ stata, salvo negli ultimi giorni quando Letta ha spinto in prima fila Elly Schlein, Bersani e Roberto Speranza, consapevole che il M5S stava rosicchiando voti a sinistra.

LETTA INVECE SI È Concentrato sugli scenari internazionali, a partire dalla minaccia ungherese, dell’«Italia come l’Ungheria di Orban», col rischio di una emarginazione in Europa e di una compressione dei diritti, lanciando a giorni alterni anche allarmi democratici sulla possibilità che la destra possa cambiare da sola la Costituzione. La campagna «Scegli», quella del rosso contro il nero, è nata dall’idea di polarizzare lo scontro a due con Meloni, di mettere gli italiani davanti a un ballottaggio, o addirittura un referendum: fuori o dentro dalla serie A dell’Ue.

Il tutto condito da continui riferimenti all’amicizia con Putin di leader come Salvini e Berlusconi. Più che una ostpolitik alla Willy Brandt si è vista una demonizzazione dei paesi dell’est, con una scelta pro-Nato che è rimasta sempre nettissima. Così Letta non ha intercettato l’umore pacifista di tanti elettori di centrosinistra, i dubbi su una escalation militare che in questi giorni finali si è fatta sempre più pericolosa con la minaccia atomica di Putin.

ALLA FINE LA CAMPAGNA Pd non ha valorizzato le novità che pure c’erano sul fronte della protezione sociale (nonostante gli sforzi di Andrea Orlando e Peppe Provenzano) e si è concentrata su un’Italia senza troppe angosce sul futuro, istruita, fiduciosa in Draghi, del tutto contraria ad avventure o a rotture di sistema. Un’Italia fatta anche di giovani istruiti, quelli che spesso migrano all’estero e che Letta ha conosciuto in Francia: ambientalisti, progressisti, con buone conoscenze delle relazioni internazionali, che hanno ben chiara la situazione polacca e ungherese. Il Pd dunque è rimasto il partito «affidabile», come lo ha descritto dal palco di piazza del Popolo Stefano Bonaccini.

UN PARTITO CHE, PUR avendo archiviato il renzismo e l’ossessione neoliberista, pur avendo acquisito il reddito di cittadinanza che ai tempi di Renzi veniva definito «una vita in vacanza», non ha saputo parlare credibilmente alle periferie geografiche e sociali. E che è rimasto vittima della «sindrome Monti»: nel 2013 Bersani non vinse perché la rabbia sociale fu intercettata dal M5S. Nove anni dopo, nonostante centinaia di convegni e riflessioni, l’andazzo è rimasto lo stesso: il Pd non è riuscito a uscire dalla gabbia del premier tecnico, lasciando spazio a forze più radicali come il M5S, in particolare nel sud più povero e arrabbiato.

IL RISULTATO DI OGGI nei collegi dipenderà anche da quanto la lista Sinistra-Verdi riuscirà a intercettare un elettorato pacifista e più radicale. E da quanto, alla fine, peserà il voto utile contro Meloni. Sopra il 20% Letta e il Pd sopravviveranno. Sotto il 18% non è esclusa l’implosione. Non un semplice cambio di segretario, dunque, ma la fine di un progetto nato nel 2007, prima delle crisi che hanno cambiato e aggravato il panorama sociale italiano fino ad oggi.

La non scelta tra i modelli Macron e Mélenchon, che Letta ha rivendicato puntando sull’originalità di un partito che cerca di tenere insieme laburismo e centro tecnocratico, potrebbe rivelarsi fatale. E aprire la strada a una ricomposizione del campo della sinistra. Come? Molto dipenderà dai numeri di Conte. In caso di sorpasso del M5S sui dem si annuncia uno tsunami.

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