La recita è finita con la campagna elettorale, anche stavolta abbiamo sognato

Giovanni Floris La Repubblica 27 settembre 2022
 
La politica come una recita
 
Sembra che tutta la campagna che viene prima sia solo un gioco

 

Caro Direttore

applausi per chi vince, fischi per chi perde, lo spettacolo è finito. Viviamo la politica da spettatori, e i candidati recitano per noi.

Non è forse una recita vincere sulla base di parole d’ordine che non potranno che essere rinnegate? Raggiungere la cima sapendo che l’unico modo di rimanerci è buttare giù la scala che ti ha permesso di arrivarci?

Ma d’altronde è una recita anche passare un’intera campagna elettorale a parlare di possibile recupero quando tutti sanno che vinceranno gli altri perché il sistema premia chi si unisce, e punisce  chi si divide.

Sono loro che sbagliano o siamo noi che amiamo i copioni sbagliati?

A noi piace chi non accetta compromessi. Ci piace ascoltarlo, ci piace identificarci con lui. Vogliamo solo gente che la pensa proprio come noi. Ma proprio proprio come noi.

Ma noi come la pensiamo, ce lo siamo chiesti? Diversamente dagli altri, questo è sicuro.

Sembra quasi che la campagna elettorale non serva a vincere, ma che sia solo un gioco, e che governare sia invece una cosa per persone serie, non per i politici che votiamo.

Lo sappiamo che nella vita vera si campa di compromessi, rinunce, sacrifici. Ma in campagna elettorale lasciateci sognare. Se poi nella realtà finiamo a votare in pochi, e rinunciando ai sogni, poco importa. Non è il costo del riformismo questo?

Il riformismo in realtà è accettare il dato di evidenza, e organizzarsi su quella base. Il riformista, ad esempio, consapevole che l’avversario veleggia da anni sopra al 40 per cento, si organizza di conseguenza. Cerca alleanze, oppure cambia il sistema elettorale. Non fare nessuna delle due cose non ha logica.

A meno che la logica non vada ricercata nel ritorno sulle singole vite dei candidati che hanno ottenuto l’elezione. Chi vota fischia e applaude, chi viene eletto fa i suoi calcoli. Ognuno ha il suo buon tornaconto: noi ci scaldiamo nel tifo, loro diventano parlamentari. Il patto sarebbe chiaro, e si spiegherebbe perché qualche settimana fa chi non ha ottenuto il collegio sicuro ha scelto di non candidarsi.

Questo riformismo in effetti una logica la avrebbe, ma non potremmo più chiamarlo riformismo.

Ma che problema c’è? Costa un lustro di governo, ma per qualche settimana tutti hanno detto e ascoltato tutto quello che volevano dire e ascoltare. E se finiremo nei guai, potremo sempre sperare che arrivi un professore a salvarci tutti.

Esiste una recita migliore?

 

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