Pd, di nuovo al punto. Non serve un leader, serve un partito

 

Annalisa Cuzzocrea La Stampa 27 settembre 2022
Il Pd a pezzi tra veleni e sospetti. Il leader: “Si eviti una notte di lunghi coltelli”
Dopo il ko elettorale si accendono sfide interne nel partito orfano delle alleanze perdute

 

Con gli occhi pesti delle notti insonni, dopo il caffè delle nove del mattino, Dario Franceschini prova a dire: «Dobbiamo rivendicare di aver tenuto, non c’è stato il tracollo che alcuni paventavano, l’opa su di noi è fallita e non è possibile che ora gli altri sconfitti parlino come se avessero vinto».

Ma nella riunione ristretta con il segretario Enrico Letta, prima delle sue parole in conferenza stampa, la posizione del ministro della Cultura rimane – per la prima volta da molto tempo – minoritaria. Dice Lorenzo Guerini che serve «avere la consapevolezza della gravità di questa sconfitta, perché ha condotto il Paese non nelle mani di un governo qualsiasi, ma di un governo di destra destra».

Abbiamo «il dovere di mettere in sicurezza il Pd – spiega il ministro della Difesa – far vedere subito che c’è un’iniziativa nuova per farlo». E quindi «non c’è da precipitare nulla, non servono capri espiatori, non bisogna addossare la responsabilità a una persona sola e tanto meno al segretario, ma bisogna indicare con chiarezza un percorso che ci porti al congresso».

Non sono passati quindici minuti, nella stanza del leader al secondo piano, insieme alle capegruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi e al braccio destra di Letta, Marco Meloni, che subito la parola congresso aleggia nell’aria con tutti i suoi non detti. I nomi che si rincorrono da mesi: il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, il sindaco di Bari Antonio De Caro, il vicesegretario pd Peppe Provenzano che rappresenta l’ala più di sinistra del partito, la new entry Elly Schlein, che però – ancora – non è nemmeno iscritta. E i tempi: tutti pensano che prima di febbraio-marzo non sia possibile. Ma già ieri sera, Letta fiutava la voglia di melina e dava altre indicazioni: «Dicembre, al massimo gennaio, adesso dobbiamo accelerare».

Non è detto che sia possibile davvero. Nella riunione ristretta alla quale mancava – assente ingiustificato – il ministro del Lavoro Andrea Orlando, Provenzano ricorda al segretario quel che lui stesso aveva detto al suo arrivo al Nazareno: «Non ci serve un nuovo segretario, ma un nuovo partito. È questo che non siamo riusciti a realizzare ed è questo di cui abbiamo davvero bisogno». E quindi: «Non servono scorciatoie personalistiche e un congresso che sia una mera conta sui nomi», serve piuttosto «una nuova identità, tornare a parlare ai propri mondi di riferimento, smettere di essere responsabili a prescindere, farsi carico delle battaglie e delle istanze della parte più sofferente del Paese senza gli equilibrismi continui che tanto hanno danneggiato il Pd degli ultimi anni».

Perché la crisi non è cominciata con la sconfitta alle politiche, l’ha generata. La «rifondazione» che immagina Provenzano parte dalle «nuove generazioni» di cui lo stesso Letta ha parlato nel suo discorso, da un congresso con regole nuove aperto anche alle forze esterne al Pd. Non si spinge a dire quali, il vicesegretario, ma il percorso sembra diverso da quello che immaginano gli altri maggiorenti dem.

Soprattutto diverso da quello che prefigura Stefano Bonaccini, su cui è già pronta a convergere AreaDem, la corrente guidata da Guerini e orfana di molta della sua forza parlamentare.

Il presidente dell’Emilia-Romagna scalda i motori da tempo e da tempo ha capito che, se vuole davvero vincere la partita, non può presentarsi con il volto dell’ex renziano nostalgico delle alleanze al centro. Così, quel che dice in queste ore è «prima viene l’identità, poi vengono le intese». E quindi: «Serve un profilo di partito forte, servono le candidature giuste, bisogna risultare affidabili agli occhi delle persone».

È convinto del fatto che questa destra si possa battere, «Meloni ha preso il 26 per cento, non il 35!». Basta «provare a fare le cose per bene, perché le sconfitte possono essere sì un problema, un dramma, ma anche un’occasione». Poi, non demonizzare l’avversario: «Non serve, spaventa le persone, le allontana».

Tutti quelli fatti fin qui sono ragionamenti che il segretario Letta condivide. Rimango «per amore del Pd», ha detto. «Accompagnerò il partito al Congresso continuando a perseguire l’unità, per evitare che scatti la notte dei lunghi coltelli». Perché anche stavolta, e non è la prima, non è solo in gioco la leadership del Pd, ma la sua stessa esistenza. Nessuno però crede a quel che dice oggi: e cioè che sarà un arbitro imparziale, pronto a incoronare chi gli succederà senza cercare di indirizzare la truppa parlamentare che ora – per la prima volta – avrà in Parlamento. E così il fair play di queste ore non è detto che duri, che non si trasformi molto presto nell’ennesimo “tutti contro tutti”.

Gli errori fatti nella costruzione delle alleanze – che Andrea Orlando rinfaccia nel post Facebook inviato ieri a ora di cena – sono stati considerati non parabili da tutti coloro che hanno lavorato insieme al segretario nelle settimane della campagna elettorale. Ma inevitabilmente, sono ora qui a chiedere il conto. E quindi la disfida interna rischia di tornare quella di sempre, o almeno degli ultimi cinque anni, con buona pace di costituenti, percorsi ordinati e congressi profondi: Conte o non Conte? Oppure, Conte o Calenda? Tornare ad allearsi subito con i 5 stelle per fare insieme opposizione – come chiede senza troppi giri di parole il ministro del Lavoro uscente – o imparare cosa significhi fare opposizione, arte dimenticata da troppi anni dai dem, accusati da più parti di essere un partito solo e sempre governista. E di aver pagato anche questo, lo schiacciamento su un’agenda Draghi che non c’era.

L’unico a saper dare una risposta netta a questa domanda è chi si è chiamato fuori dalla corsa, proprio Letta. Per il segretario pd la frattura con Conte è insanabile: «Lui e Calenda hanno lanciato un’opa sul Pd, volevano trasformarlo nel partito socialista francese dissanguandolo, abbiamo fatto una campagna elettorale in cui tecnicamente tutti gli altri partiti attaccavano noi. Ma non è solo questo: l’ambiguità di Conte ha toccato un principio per noi non negoziabile, l’appoggio incondizionato all’Ucraina dopo l’aggressione russa».

Tra Letta, Conte e Calenda – gli insulti reciproci continuavano ancora ieri – nulla può essere sanato. Guerini però proprio ieri ricordava un aneddoto del vecchio Pci: «Quando Pajetta andò a occupare con alcuni compagni la prefettura di Milano chiamò Togliatti per dirglielo: «Segretario, abbiamo occupato!». E lui: «Complimenti compagno Pajetta, e ora che ci fate?». Questo chiederebbe il ministro della Difesa tanto a Conte che a Calenda: «Siete risaliti, avete il 7 e il 15 per cento, ma ora che ci fate? C’è un tema di prospettiva politica che prima o poi anche loro dovranno porsi». E quindi, tutti tranne Letta, perfino l’ostile Guerini, sanno che di alleanze si tornerà per forza a parlare. C’è da scommetterci, ancor prima del congresso.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.