Per la prima volta c’è una sinistra competitiva a sinistra del Pd

 

Luca Ricolfi La Repubblica 30 settembre 2022
 
Il Pd e le due patenti del M5S
 
Il Movimento 5 stelle si presenta come la vera sinistra. I dem come il partito dei ceti medi e dell’establishment

 

Individuare vincitori e vinti è facile. Vincitori: Meloni sopra il 25%, Conte sopra il 15%. Vinti: Letta sotto il 20%, Salvini sotto il 10%. Il resto sono scaramucce. Ma qual è la cifra di questa tornata elettorale?

È stato notato, giustamente, che le forze politiche per lo più ritenute populiste o sovraniste – FdI, Lega, Cinque Stelle, Italexit, partitini comunisti – hanno totalizzato circa il 55% dei consensi, mentre i partiti più “draghiani” – Pd, Terzo Polo, +Europa, Impegno Civico – hanno raccolto solo il 30%, poco più della metà. Insomma, ha perso l’establishment e hanno vinto i partiti antisistema.

È questa la novità? Non esattamente, era già successo nel 2018, quando la somma di Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e populisti minori aveva superato il 57%. Altri osservatori, notando che i tre partiti di centro-destra hanno ottenuto il 43% contro il 36% nel 2018, hanno letto il risultato come uno spostamento a destra dell’elettorato. Ma è un’illusione prospettica, perché nel 2018 c’erano i Cinque Stelle, e una parte non trascurabile del voto di destra era confluito nel partito di Grillo.

Se si tiene conto di questa circostanza, i risultati suggeriscono, semmai, un lieve arretramento del consenso alla destra, che nel 2018 si annidava anche nel consenso ai Cinque Stelle. Un arretramento che si può desumere anche da un’altra circostanza: i sondaggi degli ultimi due anni hanno quasi sempre attributo ai tre partiti di centro-destra qualcosa di più del 43% registrato alle elezioni del 25 settembre. Insomma, sull’appuntamento elettorale non ha spirato alcun “vento di destra”.

Se il centro-destra ha vinto non è perché il baricentro elettorale si è spostato verso destra, ma perché la destra ha una leader che ha saputo sfruttare la logica della legge elettorale (che premia le alleanze larghe), mentre la sinistra ha un leader che non ha nemmeno provato a sfruttarla, quella logica.

La vera cifra del voto, a mio parere, è un’altra. Prima del 25 settembre 2022 non era mai successo che, a sinistra del Partito Comunista (e dei suoi successori Pds-Ds-Pd), prendesse forma un partito di dimensioni comparabili. Partiti come Psiup, Manifesto, Democrazia Proletaria, Nuova Sinistra Unita, Rifondazione comunista, PdCI, Sel, Leu, eccetera, sono sempre stati sotto il 9%, il più delle volte sotto il 5%. Certo, c’è stata la Margherita di Rutelli, che ha spesso superato il 10%, ma la concorrenza ai Ds la faceva da destra, non da sinistra.

Quanto ai Cinque Stelle, nel 2018 avevano (ampiamente) raggiunto la massa critica necessaria a competere con il Pd, ma non erano ancora percepiti come un partito di sinistra. Perché la mutazione avvenisse, occorrevano Renzi e il suo colpo di mano parlamentare, che d’un tratto – con la formazione del governo giallo-rosso – fornì ai Cinque Stelle entrambe le patenti di cui avevano bisogno: la patente di partito affidabile e quella di partito affine alla sinistra.

Ecco perché il 25 settembre è una data spartiacque. I Cinque Stelle non solo superano il 15%, avvicinandosi al 19% del Pd, ma lo fanno presentandosi come “la vera sinistra”, non importa qui se legittimamente oppure no. Come è potuto accadere?

È semplice. Il Pd non è un partito socialdemocratico, che si rivolge ai ceti popolari e ne interpreta i bisogni. Il Pd è il partito dell’establishment e dei “ceti medi riflessivi”, ossessionato da due soli temi: l’accoglienza dei migranti e le battaglie per i diritti civili. Dei diritti sociali gli importa quasi nulla, anche se in campagna elettorale ha dovuto fingere che gliene importasse qualcosa. In breve, è diventato un “partito radicale di massa”, come a suo tempo aveva profetizzato il filosofo Augusto del Noce immaginando il futuro del Pci.

La cosa poteva funzionare, e in parte ha funzionato, finché i problemi della gente non erano drammatici. Ma con le ripetute crisi dell’ultimo quindicennio non poteva funzionare più, qualcosa si sarebbe dovuto cambiare. I dirigenti del Pd non hanno saputo vedere la spaventosa domanda di protezione, economica e sociale, che saliva dal Paese. Per dirla con Bersani, non si sono accorti della “mucca nel corridoio”, che ormai bussava alla porta.

I Cinque Stelle invece sì. Per quanto sbagliate e qualunquiste possano essere le loro proposte, molti elettori – non solo al Sud – li hanno visti come la autentica sinistra, che non si occupa solo delle “grandi battaglie di civiltà”, ma anche di problemi più terreni, di cui la sinistra d’antan si faceva carico.

Ora il Pd è a un bivio, su cui il congresso di primavera dovrà pronunciarsi: fare concorrenza ai Cinque Stelle sul loro terreno, riscoprendo la questione sociale, o prendere atto della mutazione che ha cambiato il Dna della sinistra ufficiale. Avviandosi, in questo caso, a diventare in modo esplicito il partito dell’establishment e dei ceti medi istruiti e urbanizzati.

 

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