Se la tessera N.1 del Pd (De Benedetti) decide di sciogliere il Pd…

Stefano Feltri Domani 1 ottobre 2022
 
Chiudere il Pd per salvare la sinistra
 
Per salvare la sinistra bisogna sciogliere il Pd, dichiarare l’esperimento fallito e lasciare che altri soggetti riempiano quello spazio. Non si tratta di cambiare segretario, nome o facce, ma di archiviare un progetto politico, quello di uno schieramento progressista costruito intorno a un grande partito tradizionale.

 

Lo ha detto con grande chiarezza l’ex presidente del Pd Matteo Orfini nell’intervista a Domani, «è diventato un soggetto respingente».

Lo hanno esplicitato i manifestanti a difesa del diritto all’aborto che a Roma che hanno maltrattato l’ex presidente della Camera Laura Boldrini: dialogo interessante, Boldrini dice cose di buon senso, ma le ragazze arrabbiate l’azzittiscono, “voi non rappresentate nessuno”. Sono due mondi che non si parlano. “A lei delle persone che stanno nelle case popolari non gliene frega niente”, dice la manifestante.

Di sicuro il Pd non riesce più a parlare ai suoi elettori, men che meno a quelli degli altri. Tutti conosciamo persone che hanno sempre votato a sinistra ma che questa volta, e tutte le prossime che verranno, il Pd non l’hanno votato.

E non lo voteranno mai più, perché il partito è diventato respingente per troppi pezzi del suo elettorato potenziale: per i ceti più popolari, che lo vedono come il partito della classe media, per le élite progressiste, che lo considerano un partito della conservazione e dello status quo più che del cambiamento, per chi non ha appartenenza ideologica e, chiusa la stagione renziana, ha sempre visto leader preoccupati soltanto di preservare una tradizione in disfacimento.

NON È COLPA DI LETTA

Non per colpa di Enrico Letta: la campagna del segretario è stata sicuramente troppo pacata e non è riuscito ad allearsi con partner riottosi come Carlo Calenda e Giuseppe Conte, anche se ci ha provato. Ma di sicuro la crisi del Pd, e di conseguenza del centrosinistra, non è attribuibile a lui.

Il crollo del Movimento Cinque stelle tra  2018 e 2022 non ha riportato voti verso il Pd che è sceso ancora, da 6,1 milioni di voti cinque anni fa a 5,4 attuali. Il Partito democratico non ha alcun potenziale di riprendersi, non è ancora crollato come il Parti socialiste francese (da 10,2 milioni a 618.400 voti in dieci anni) perché in questo decennio di governo è diventato un partito-stato che, dal Quirinale in giù, presidia snodi delle istituzioni, risorse, nomine e potere. Ma non durerà a lungo, dopo la vittoria schiacciante della destra.

La corsa di auto-candidature per la guida del Pd indica che la scelta è soltanto su come amministrare il declino.

Si vedono in campo due approcci, che cercano, rispettivamente, di preservare quello che è rimasto: gli amministratori (da Stefano Bonaccini a Vincenzo De Luca) spingerebbero il Pd in una direzione più decentrata e territoriale, i laburisti (da Andrea Orlando a Peppe Provenzano) verso un ideale socialdemocratico che però non funziona più. E soprattutto non è più credibile.

IL CASO SCHLEIN

Resta l’ipotesi del partito-movimento con Elly Schlein: ma anche questa è bruciata e decotta, anzi la parabola di Schlein è la migliore prova che il Pd deve sparire. Da contestatrice con #OccupyPd nel 2013, Schlein è stata gradualmente cooptata dal partito: europarlamentare, poi fuoriuscita, poi lancia una sua lista alle regioni in Emilia-Romagna, finisce per essere vicepresidente di Stefano Bonaccini, incarnazione del partito che contestava. Riprova nel 2021 a lanciare una specie di aggregatore di varie forze della società civile, ma l’esperimento porta soltanto a un seggio sicuro in parlamento (per lei) nelle liste del Pd.

Per come è oggi, il Pd impedisce che ci sia alcuna vitalità nella sua area di riferimento, è un vampiro politico che succhia ogni energia disponibile per preservare la sua già cadaverica esistenza.

Di democratico poi non ha più quasi nulla: i segretari vanno e vengono senza che sia chiaro chi li evoca e chi li caccia (non si è mai capito con chi ce l’avesse Nicola Zingaretti quando si è dimesso, e neppure chi ha abbia richiamato Letta), lo strumento delle primarie è stato abbandonato insieme a quelle coalizioni allargate che lo giustificavano. La legge elettorale Rosato che toglie all’elettore ogni potere  di incidere sulla scelta dei parlamentari è un prodotto del Pd.

Letta ha provato a coinvolgere altri soggetti, nei lunghi mesi delle Agorà democratiche. E ha anche ricucito i rapporti con gli scissionisti di Liberi e uguali a sinistra. A cosa è servito? Soltanto a dimostrare che non era quello il problema e non era quella la formula.

PROGETTO FALLITO

Il Pd poteva essere un grande aggregatore di tutte le energie a sinistra, ma avrebbe dovuto essere democratico davvero, scalabile, capace di tollerare al suo interno punti di vista e priorità diverse.

Invece è stato soltanto la spartizione di un potere sempre più piccolo tra due oligarchie, gli ex Ds e l’ex Margherita, che sono ancora ben distinte e riconoscibili nelle filiere di riferimento.

Meglio allora che lasci spazio ad altro. Non alle destre, ma alle energie a sinistra – e sono tante, dall’ambientalismo agli attivisti sulle questioni di genere – che oggi si infrangono contro il muro di un partito che respinge elettori e alleati potenziali.

Che la fine passi per scissioni progressive o una consapevole rinuncia poco importa, il Pd oggi è il principale problema della sinistra in Italia, ben più di Giorgia Meloni.

 

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