Se sei il partito dell’ establishment e del palazzo, diventi il bersaglio della rabbia

 

Isaia Sales La Repubblica 3 ottobre 2022
 
Il Pd esca dall’equivoco, i veri riformisti non sono moderati
 
Il saggista ex deputato Ds interviene nel dibattito su come ripartire: “I dem si sono arresi all’ingiustizia. E si comportano da guardiani del Palazzo”

 

Il dibattito sulla crisi del Pd sta registrando un primo insopportabile paradosso. Molti dei suoi dirigenti sotto accusa propongono analisi così dettagliate sui motivi della sconfitta che ci si può domandare: se era tutto così chiaro, perché mai nessuno ha detto prima le cose che sostiene oggi? Perché in politica debbono trasformarsi in inevitabili gli errori che si potevano evitare? E la saggezza del giorno dopo non è altrettanto insopportabile della cecità del giorno prima? Enrico Letta almeno ha annunciato che non si presenterà candidato alla segreteria del prossimo congresso, ma è segno della quasi irreversibile crisi del Pd il fatto che si stanno preparando a correre alcuni dei corresponsabili del disastro.

Dal mio punto di vista, la domanda più semplice da cui partire nell’analizzare la sconfitta è questa: perché il Pd non è votato in Italia dall’elettorato che in ogni parte del mondo vota un partito della sinistra riformista? La mia risposta è altrettanto semplice: la crisi del Pd è ascrivibile semplicemente alla “rivolta elettorale” dei luoghi trascurati, dei ceti abbandonati e delle idealità tradite. Il Pd non ha vinto in nessun collegio uninominale al Sud (pur guidando da anni le due regioni continentali più popolate) ed è odiato da coloro che un tempo diceva di voler rappresentare, cioè i lavoratori dipendenti, i giovani precari e i senza lavoro; inoltre, non è sentito utile da coloro che investono in politica ideali e passioni. Una forza politica fredda che non trasmette speranza per il futuro, che è composta dalla somma di vari padrinati romani e locali, che ha consumato le identità precedenti senza conquistarne altre se non quella di Partito della stabilità del sistema. Una forza affidabile solo per l’establishment del Paese.

Per un partito politico, si sa, è fondamentale non solo raccogliere il maggior numero di voti del suo potenziale bacino di consensi, ma anche non ricevere voti contro. E il 25 settembre è avvenuto esattamente questo: tantissimi hanno votato contro il Pd, prima ancora di scegliere un altro partito. Insomma, il Pd ormai è percepito come non empatico, irrilevante rispetto al disagio della vita quotidiana. Inoltre, chi non lo vota più ha verso di esso un atteggiamento da amante tradito, da figlio deluso, da elettore disincantato che mai avrebbe pensato che il suo partito potesse arrivare a tanta indifferenza verso i temi identitari della storia politica da cui proviene. Il Pd ha deluso sia il voto di appartenenza, sia quello di investimento ideale, ma anche quello di mera rappresentanza di interessi sociali.

Com’è stato possibile in così poco tempo dilapidare un patrimonio culturale, politico, sociale e territoriale che di per sé era in grado di rappresentare un terzo dell’elettorato italiano? Senza passioni forti e senza interessi sociali da difendere e promuovere, il Pd da partito “pigliatutto” si è trasformato in partito “stringiniente”, da Partito della nazione a partito dei padrinati locali, da partito dei meriti e dei bisogni a partito dei figli e dei parenti. E così si è finiti per diventare controparte della rivolta anti-élite che da più di un ventennio si accompagna all’inquietudine di vasti ceti sociali. Ed è segno di cecità politica trasformare qualsiasi manifestazione di disagio sociale in accusa di populismo. Questa rapida e travolgente trasformazione di una forza riformatrice del sistema in una forza di conservazione e di “guardiania” del Palazzo, è la principale questione identitaria da affrontare.

Ci sono due equivoci di fondo nella scelta che 15 anni fa riunì in un solo partito ex comunisti ed ex democristiani. La prima è il convincimento che si può essere moderati e riformatori allo stesso modo. Il moderatismo nella storia d’Italia ha conciso sempre con la difesa dello status quo, mentre il riformismo al contrario (nelle sue varie accezioni) è sempre stato la messa in discussione della situazione economica, sociale, culturale del Paese. Il riformismo può e deve essere graduale, ma non può essere moderato. È come chiedere di correre e di non sudare, o di gridare a bassa voce. Il gradualismo attiene solo ai tempi per riformare, non alla necessità di farlo. i due termini (moderatismo e riformismo) e i due atteggiamenti non sono conciliabili, e prima o poi esplodono se messi forzatamente insieme.

Il secondo equivoco attiene a una visione neutra degli interessi in gioco, come se il conflitto tra diverse esigenze fosse solo il residuo della politica novecentesca e non carne e sangue della contemporaneità. Un partito che non sceglie di combattere le ingiustizie e di pendere per una parte (senza trascurare le eventuali esigenze di altri) è destinato all’irrilevanza in un’epoca di accentuazione netta degli squilibri umani, territoriali, sociali, culturali. Può non essere marxista la cultura politica di una forza di sinistra, ma senza voglia di giustizia sociale nessuno è fino in fondo un progressista. Il Pd ha pensato che le lotte contro le disuguaglianze fossero un armamentario del passato pensando di avere a che fare con un mondo sociale pacificato e parificato nel quale bisognava solo lavorare per l’allargamento delle libertà individuali. Come se il Pd dicesse attraverso ogni gesto, ogni azione, ogni parola di un suo dirigente: Io non posso o non voglio interessarmi della difficoltà (e della infelicità) altrui, che in politica vuol dire non voglio più combattere le ingiustizie di ogni tipo. Il Pd ha lo sguardo arreso alle ingiustizie e le considera un prezzo da pagare per la tenuta del sistema.

Infine, c’è il problema dei “maestri” in politica, cioè dell’inesistenza oggi di dirigenti del Pd a cui un militante o un elettore vorrebbe somigliare o in cui vorrebbe identificarsi. Mancano, cioè, al Pd leader morali, quei leader che ti rendono orgoglioso della parte politica a cui aderisci. Nessuno del Pd ha a casa una foto di un suo dirigente, mentre Moro e Berlinguer ci guardano ancora con l’aria timida, dolce e seria di chi ha dato la vita per una causa.

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