Tronti: Non bastano parole, ci vogliono idee. Non basta cultura, ci vuole pensiero.

Umberto De Giovannangeli — il Riformista 4 Ottobre 2022
La crisi della politica e della sinistra
Intervista a Mario Tronti: “Rifare la sinistra, ma senza Conte”

 

Professor Tronti, in molti hanno definito “storiche” le elezioni del 25 settembre. Lei come la vede?

Nulla di storico. Molto di politico. Anche se di politica dell’oggi, non proprio al massimo della qualità. Che cosa è accaduto? È accaduto che si è licenziato lo ”statista dell’anno” per assumere l’ultima novità del mese, a prezzo scontato, come nelle offerte dei supermercati. Già a suo tempo il genio di Schumpeter aveva descritto queste democrazie elettorali come mercato politico. Oggi con la dittatura della comunicazione di massa il fenomeno si è esasperato. Per i consumatori, cioè per gli elettori, non si fa che promuovere sempre nuovi prodotti “convenienti”. A sostituzione di prodotti rapidamente scaduti. Siccome non c’è più chi è in grado di orientare politicamente l’opinione pubblica, defunta la forma organizzata del partito, il risultato è questo “mondo fluttuante” che ben descriveva Sergio Fabbrini in una recente intervista al vostro giornale. Per ogni elezione, avanti un altro! La diversità semmai è che questa volta si tratta di un’altra. Ma non ha contato quella preziosa “differenza” teorizzata dal femminismo. L’hanno votata più gli uomini che le donne.
Sull’onda di una sconfitta bruciante, nel Partito democratico sembra essersi aperta la stagione della resa dei conti. Enrico Letta ha annunciato di non volersi più ricandidare alla segreteria, mentre è iniziato il florilegio delle autocandidature. La butto giù seccamente. Ma questo Pd è un partito riformabile?

Questa campagna elettorale è iniziata con un vincitore sicuro, in base ai sondaggi. I sondaggi, più che descrivere, in sostanza guidano il voto. Chi è certo che vincerà ha un plusvalore di voto a disposizione. Non è l’immunità ma la comunità di gregge. Voglio spezzare una lancia a favore di Enrico Letta. Non è sua la responsabilità del famoso mancato campo largo. Non ha fatto che tentare di aggregarlo nel breve tempo a disposizione. Non l’hanno voluto né Conte né Calenda. Il primo aveva dato chiaro il segnale con la provocatoria rottura del patto elettorale in Sicilia. Il secondo con il pretesto della incompatibilità con la presenza di Fratoianni. In realtà avevano già scelto la corsa in solitaria, per misurare il rispettivo consenso, poi per ritagliarsi una postazione per il futuro l’uno a sinistra l’altro alla destra del Pd, ma soprattutto perché sapevano, conoscendo il proprio elettorato, che questo a larga maggioranza non l’avrebbe seguito in quella eventuale coalizione. Il voto ai 5Stelle e il voto al Terzo polo è oggi più un voto anti-Pd che un voto contro la destra. In termini di numeri, con il campo largo, la vittoria della destra non sarebbe stata molto diversa.
Che destra è quella che si appresta a governare l’Italia?

Prendiamola un po’ da lontano, almeno dal medio periodo. La cosiddetta seconda Repubblica ha privilegiato e favorito di gran lunga il centro-destra. È nata per questo, con questo ha avuto la sua mediocre fortuna e ha depositato nel fondo del sociale un humus di massa corrispondente. Non è vero che questo è stato sempre un Paese di destra. Dal secondo dopoguerra, lo è diventato a un certo punto. I partiti di massa sostituiti dai partiti personali, spesso con tanto di nome risonante sul simbolo, ne sono stati un’espressione. Nella nostra democrazia rappresentativa, con una Costituzione che a lungo ha garantito una repubblica dei partiti, questa è stata una svolta decisiva. Di qui, sui nomi, come è naturale, grandi ascese e rovinose cadute, Da Berlusconi a Renzi a Salvini. Quando è stato chiesto agli elettori di FdI la principale motivazione del voto il 66%, mi pare, ha risposto: la Meloni. Il destino dei suoi predecessori, appena comincerà a governare, sarà difficilmente evitabile. Ma non è questo il punto principale che mi interessa sottolineare. È piuttosto il seguente. Quando questa seconda repubblichetta è entrata in crisi, per guai economici, per esasperazioni sociali, per ritardi istituzionali, soprattutto per insufficienza e insipienza di ceto politico, la situazione si è radicalizzata. Quello che era centro-destra è diventato destra. Qui, la vera novità. Solo che mentre il centro-destra diventava destra, il centro sinistra è rimasto centro-sinistra. Non si è capito che per contrastare questa destra ci voleva una sinistra. Questo non da oggi. Ma da quando la crisi della globalizzazione neoliberista aveva riproposto, in termini nuovi, che andavano analizzati e poi politicizzati, la centralità della questione sociale. Almeno qui da noi, questa non è una destra illiberale, è una destra sociale. Se a una destra sociale contrapponi una sinistra liberale, la sconfitta è già segnata. Non è una destra populista, è una destra politica. Che vuole una sinistra politica: cioè una solida ritrovata rappresentanza politica del mondo del lavoro. Non giriamo intorno al problema. Il prossimo congresso del Pd dovrebbe partire da una domanda, dalla cui risposta tutto il resto – identità, prospettiva, immagine, organizzazione – deve seguire. La domanda è: perché la povera gente vota la destra?

Più che sull’identità, su un progetto per l’Italia, il dibattito nel centrosinistra, e dentro i Dem, si sta focalizzando sulle alleanze. Ora torna in auge quella con i 5Stelle di Conte.

Qui, le dolenti note. A quella domanda la sinistra non ha dato risposta da anni, se non da decenni. È rimasta ferma alla fase precedente la crisi della globalizzazione del capitalismo neoliberale: quando, negli anni Novanta, si era sdraiata sulla narrazione della fine della storia. Il nuovo inizio era la rinnegazione del passato e l’accettazione progressista del presente. La forza politica, per natura alternativa, assume in pieno la ricetta thatcheriana: non c’è alternativa! Il fatto che in quel periodo formazioni più o meno socialdemocratiche si trovano al governo in buona parte dell’Europa aggrava il problema. La sinistra si accomoda in quella funzione di supplenza nella gestione degli affari correnti della formazione economico-sociale così com’è. Non abbandonerà questa postazione nemmeno quando verrà scaraventata all’opposizione. Da allora sarà, come Gianni Agnelli diceva della Confindustria, per vocazione governativa. E le scosse di terremoto, che dalla crisi del 2007/2008 di un capitalismo a trazione finanziaria continuano ancora oggi a far sobbalzare il terreno sociale, non sono state minimamente avvertite: con l’aggiunta recente di pandemia e guerra, di inflazione in atto e recessione in arrivo. Svalorizzazione e precarizzazione del lavoro, crescita della povertà assoluta e relativa, aumento delle disuguaglianze, insicurezza di vita, bisogno di protezione: questo sta scritto nell’agenda delle iniziative da prendere. Si dice che il Pd non è, ma purtroppo viene visto, come parte dell’establishment. Se così viene visto dalla maggioranza della popolazione qualcosa di vero deve esserci. La povera gente vota a destra perché la sinistra di oggi, quella maggioritaria, moderata, responsabile, cioè il Pd, rappresenta la parte progressista della mentalità borghese. Il suo consenso è giustamente quello dei ceti medi riflessivi, dei benpensanti, dei sufficientemente benestanti. Attenzione, consenso da trattenere e da ben conservare. Ma si prenda atto di tale condizione e si passi ad organizzare alla sua sinistra una grande forza politica popolare, spendibile, credibile, direi, futuribile.
Ma come e con chi, professor Tronti, tentare questa impresa titanica?

È un impegno che ha bisogno di un tempo scandito e controllato. Va coltivato, non improvvisato. Non c’è urgenza di una lista elettorale. Non si parli di scissioni, è tutto già visto e non ha dato certo buoni frutti. Si tratta di una scommessa ben calibrata, discussa, pensata. Ma c’è pregiudizialmente, a mio parere, un equivoco che va da subito tolto dal tavolo. Lo vedo purtroppo presente in molte intelligenze che pure sento vicine. È il grande equivoco 5Stelle. Se si parte da lì si parte col piede sbagliato. Il Conte Fregoli, che è stato capace di indossare in quattro anni tutte le maschere disponibili sulla scena pubblica, tra l’altro, non si è mai detto non dico di sinistra, ma nemmeno di centro-sinistra. Nell’ultima reincarnazione si è detto progressista. Ed è ormai noto che si dice progressista chi non se la sente di nominarsi come di sinistra. Il Movimento aveva sfondato sopra il 30% e ripiegato al 15, richiamando al voto buona parte dell’astensionismo qualunquista che sempre cova nelle pieghe umorali dell’Italietta. Quello è il corpo che rimane sotto le vesti volta a volta dismesse e mutate. Può darsi che pezzi di elettorato di sinistra si siano collocati sia ieri che oggi in quel contenitore. Ma non è questa la ragione per considerarlo affidabile compagno di viaggio. Allora io, vecchio non pentito operaista, visto che una notevole quota di operai votano Lega, dovrei prendere sul serio Salvini. Cari compagni, comporre un nuovo soggetto, politico, non antipolitico, che richiami in patria un popolo del lavoro in esilio è un lavoro molto serio. Non è roba da grillismo, più o meno riverniciato. Il punto da cui ripartire è la piazza della Cgil che vedremo in campo sabato prossimo 8 ottobre. Lì è il punto di riferimento fortissimo per la sinistra. Statemi a sentire, una buona volta. Non bastano parole, ci vogliono idee. Non basta cultura, ci vuole pensiero. Non basta populismo, ci vuole progetto. E ci vuole forza, volontà, determinazione, passione, venire da lontano per andare molto lontano.
In precedenti conversazioni, lei ha affrontato il tema della crisi della rappresentanza e del distacco crescente tra il Paese reale e coloro che dovrebbero rappresentarlo nelle istituzioni. Il fatto che le elezioni del 25 settembre abbiano registrato un calo del 10% dei votanti rispetto al 2018, e che queste “storiche” elezioni siano state le meno partecipate nella storia della Repubblica, non dovrebbe essere materia per una seria riflessione su una crisi sistemica?
La disaffezione al voto è un problema di tutte le democrazie realizzate di Europa e di Occidente. Noi poi siamo specialisti nel farne un sempre estremizzato caso italiano. Sono queste democrazie che vanno ripensate. Prima di proporle altezzosamente a tutto il mondo, faremmo bene a guardarle con un occhio un po’ più critico. Perché proprio in questi regimi si è creata questa profonda frattura tra élites e popolo? Perché la democrazia politica ha prodotto antipolitica? Perché la democrazia liberale – senza dubbio una conquista – si trova a fronteggiare democrazie illiberali, senza dubbio un regresso? Tante domande, altrettanti problemi. Quanto poi al crescente bacino astensionista del nostro elettorato, io mi sono fatto un’idea. Non ho i numeri e quindi posso sbagliare. E mi piacerebbe che qualcuno questi numeri li cercasse. Se è vero che il populismo ha dato voce al qualunquismo, tradizionale bacino astensionista, allora in questo bacino è attualmente presente una parte non meno ma più politicizzata di opinione. Soprattutto di sinistra, che non ha trovato più un’offerta politica corrispondente ai propri bisogni, alle proprie aspirazioni, anche ai propri ideali. Allora è lì che bisognerebbe andare a pescare. Insomma, il “che fare?” non manca. Invece di chiacchierare, damose da fa!

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