Fabrizio Barca: “L’identità a sinistra è anche democrazia partecipata”

Valentina Desalvo La Repubblica 9 ottobre 2022
Fabrizio Barca: “L’identità a sinistra c’era, ma è stata buttata via. Elly Schlein può essere protagonista”
Intervista all’ex ministro ed economista: “Lo scontro è tra conservatori e radicali, ma la radicalità fa paura”


Fabrizio Barca, economista, ex ministro del governo Monti, è il coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, è stato nel Pd facendo un lavoro sui circoli mai sfruttato e ha partecipato alle Agorà di Letta. Martedì sarà ospite al festival di Pandora sulla democrazia (alle 17 allo Stabat Mater dell’Archiginnasio di Bologna con Luisa Marchini e alle 18.30 con Piero Ignazi).

Perché la democrazia è in crisi?
“È una malattia che condividiamo con tanti altri. Dietro c’è un paradosso: la diffusione dei saperi fa sì che ognuno pensi di avere competenze e aspirazioni per dire la propria, ma questa cosa ne richiede un’altra, cioè che l’elemento partecipativo diventi più forte. Invece la democrazia si è evoluta con una riduzione di partecipazione. Germania e Spagna la vivono in modo diverso, noi abbiamo la peculiarità di aver mandato a gambe all’aria i partiti”.

Ma la vittoria della Meloni è anche quella del suo partito.
“Sì, la Meloni ha vinto con un partito, come aveva fatto la Lega. Il filo di Fratelli d’Italia è il corporativismo sociale, vediamo se regge, perché quelle forme sono invecchiate”.

E il Pd?
“Letta attribuisce la crisi del Pd al governismo, qualcuno alla fusione a freddo con cui è nato. Il punto è il modo improprio e meschino con cui hanno chiuso la loro storia i vecchi partiti, dal Pci alla Dc, ma anche i socialisti: si sono solo ripetutamente pentiti del loro passato, senza analizzarlo”.

Cosa avrebbero capito?
“Che gli anni Settanta sono stati anche anni straordinari per il progresso sociale, economico e politico del Paese. Dallo statuto dei lavoratori ai distretti industriali, dalle scuole che integravano i bambini difficili alla cura dei più fragili. E questo è stato grazie a tante culture politiche che si univano. Invece Martinazzoli e Occhetto le buttano via. Come fai oggi a dire che c’è un problema d’identità se ce l’avevi un’identità e l’hai buttata?”.

Con il Forum voi girate l’Italia e incontrate tante associazioni e circoli dalle buone pratiche. Come si fa a metterle a sistema?
“L’Italia è ricchissima in questo senso: cooperative sociali, mutualismo, creatività, forte imprenditorialità. Ma il punto è: come si mette a terra questa ricchezza? Mille storie non fanno un cambio di sistema, perché ci sono decisioni, regole e leggi che spetterebbero alla politica dove invece si impantana tutto. L’esercizio di connessione e di traduzione in proposte di cambiamento lo dovrebbero fare i partiti di sinistra, ma di sicuro il Pd non l’ha fatto. Ci sono 120 patti educativi territoriali per contrastare la povertà educativa e invece di coordinare quelli, si sono buttati i soldi qua e là senza criterio”.

Questo vale anche per il lavoro fatto dalle Agorà volute da Letta.
“Avevamo diverse proposte, ma a parte quella dell’eredità universale buttata lì e sprecata, durante la campagna elettorale non ne è stata usata nemmeno una”.

Perché?
“Credo che ci sia da un lato una remora, forse la non convinzione che si possa cambiare paradigma, e dall’altro la paura di non reggerlo, questo cambiamento. Le Agorà di Letta sono state irrise dal suo partito: questo ha fatto la classe dirigente del Pd, perché percepisce che sono un rischio. Quella di Letta è stata una debacle più raffinata, rispetto a quella di Zingaretti con l’iniziativa Piazza Grande che è finita una settimana dopo le primarie. Quella organizzazione anestetizza qualunque cosa, per la sopravvivenza del ceto dirigente. E d’altra parte un organo esecutivo con 200 persone è una follia”.

Lei ha detto che, a sinistra, il confronto è tra conservatori e radicali.
“Sì. Ma quando Filippo Andreatta, nel 2022, ripropone la differenza tra riformisti e massimalisti è finita. Perché il massimalismo è avventurismo e dunque ogni atto radicale, così, viene bollato come massimalista. Si ha paura del radicalismo, ma oggi sta saltando il mondo e forse dobbiamo pensare a cambiare i paradigmi”.

L’Emilia-Romagna è diversa?
“Qui esiste una qualità amministrativa che sta reggendo, mentre altrove non ha retto. E questo è un patrimonio, ma non è politica. Io, per esempio, vedo innovazione a Bologna e nell’alto reggiano. A Bologna c’è un tentativo quasi unico dell’utilizzo della transizione digitale come strumento non di oppressione ma di sicurezza e poi c’è il lavoro fatto sui rider, per citarne alcuni. Nell’alto reggiano, come a Castelnovo Monti, si è data attuazione alla strategia delle aree interne. La classe dirigente sta cercando un approccio nuovo nelle politiche pubbliche – mobilità, salute e istruzione – con modalità di decisione per coivolgere i cittadini. Bisogna sperimentare nuovi metodi di politica pubblica per rivolgersi ale persone nei luoghi in cui vivono. La politica del governo Draghi di dare soldi così a pioggia è esattemente il contrario”.

Ma lei è ancora ottimista?
“Sì, perché l’Italia è troppo ricca di gente giovane e di esempi che vogliono cambiare il mondo. Poi non è detto che sia attraverso il Pd: non è escluso, ma ora non lo sappiamo. Le idee però ci sono”.

Lei ha lavorato con Elly Schlein.
“Sa interpretare quegli spunti di sistema di cui parlavo e può essere protagonista di un partito che se ne faccia carico e che combatta per la giustizia sociale e ambientale. Non so se questo partito possa essere il Pd”.

Le consiglierebbe di correre per la segreteria?
“Questa è una decisione enorme, ma qualunque sia la sua scelta, qualunque sia la partita che vorrà giocare, se avviene indicando quali sono le dieci missioni visionarie e terribilmente concrete da portare avanti, con quel senso di radicalita, lei la vincerà”.

E di Bonaccini cosa pensa?
“Che sta nel posto giusto, ognuno ha le sue attitudini”.

 

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