Davanti al baratro … trattativa possibile

Domenico Quirico La Stampa 10 ottobre 2022
Quando il baratro fatale si avvicina la pace diventa possibile
Putin ha perso la guerra e come tutti i tiranni sa che lo aspetta il tradimento dei suoi e la solitudine. Zelensky non l’ha ancora vinta. Ora chi sostiene i due nemici si imponga ed eviti l’uso dell’atomica


È nel momento in cui più si avvicina il baratro, irrimediabile, talmente profondo che non riusciamo nemmeno a misurarlo, così profondo da non avere eco, che la pace diventa possibile. Sì: non necessaria, possibile.

Putin ha perso la guerra e, come tutti i tiranni, sa che l’unico copione per lui è il tradimento degli ex fedelissimi, la solitudine, la congiura fatale, forse la morte. Zelensky, che come molte vittime sta percorrendo rapidamente la strada che lo capovolge nel suo contrario, quella del delirio della dismisura, dell’offuscamento dei limiti, del messianesimo del Bene contro il Male, non l’ha ancora vinta. È per questo che coloro che tengono i fili che reggono i due avversari sul campo, li alimentano, devono approfittarne, per imporsi se necessario impedendo il passaggio successivo, il ricorso alla atomica.

È una scintilla, bisogna alimentarla finché è possibile. Ma finora è stata sommersa in una quantità inimmaginabile di liquido corrosivo. Che il ricorso da parte dei russi all’atomica, piccola, grande… Che differenza fa? Sia propaganda ormai lo proclamano solo gli zeloti del credo atlantista, alla ricerca di medaglie da raccogliere in pantofole. Quelli che strillano «stiamo vincendo, volete salvare Putin… » e «alla fine tutte le cose si sistemano» perché noi Occidente avremmo sempre ragione. Intanto, dato nuovo, l’idea dell’apocalisse possibile avanza nelle conversazioni, negli occhi, nell’aria, assidua presente come la luce. Se n’è accorto perfino il presidente americano Biden. Tutto lo scenario del conflitto è stato completamente modificato. Ora questa guerra è descrivibile in termini shakesperiani, una tragedia classica in cui contano umori e disperazione dell’uomo che può avviare il Giudizio universale. Gli analisti sono fuori gioco, le loro previsioni razionali, politiche non valgono un copeco. Solo gli studiosi dell’animo umano hanno la possibilità di descrivere e capire.

Putin sta percorrendo le tappe del tiranno sconfitto, di Macbeth che vede l’impossibile, ovvero la foresta che cammina e marcia contro di lui. Via via, a poco a poco che le ritirate lo allontanano dalla sua corte dei miracoli, ha scoperto la vera solitudine che gli scortica il collo come un giogo. Come fu per Hitler, Gheddafi, Saddam. Che non è quella compiaciuta del potere ma quella disperata della sconfitta e della morte. Il silenzio scende nel Palazzo come per tanti altri prima di lui. Contro questa muffa non basterebbe più conquistare un qualunque ripiano nemico, tempestarlo rabbiosamente di missili perché si instauri di nuovo la prediletta, corale unanimità.

Come lo aiuterebbe leggere, subito, le vite di Svetonio, i cui amari libri guariscono e feriscono l’anima descrivendo i labirinti del potere assoluto. Dove i despoti attaccati al presente ormai con tutta la forza che da loro la scoperta della morte, non progettano più, non cercano più, non discutono più: odiano.

Nel silenzio un odore invade le sale, un odore che non assomiglia a nessun altro, animalesco, forte e insipido nello stesso tempo: l’odore del tradimento. Tutti i segni paurosi che avrebbero dovuto metterlo in guardia contro se stesso, sono gli altri a scorgerli nel suo guardare fosco, nel suo camminare, nella sua voce. Si osserva. E si accorge di quanto è cambiato nelle ultime settimane come se gli avvenimenti nefasti lo avessero lavorato a colpi di martello.

Le armate che sulla carta dovevano inghiottire i chilometri, occupare, denazificare, si sono fatte fantasmi sulle carte, adesso con le mani piantate nel terreno a mala pena resistono, non possono fare altro. La gioventù della Russia neo imperiale se la dà a gambe o, rassegnata, nelle caserme attende di imparare come si fa a uccidere e a farsi uccidere. Tra poco arriverà il momento di gridare che la colpa è di quei renitenti, di quella gioventù rammollita che non ha saputo essere all’altezza del compito eroico, che merita quindi di morire. Altri, assediati nel bunker, lo hanno già fatto per assolversi dalla catastrofe.

Bisogna cambiare i generali freneticamente, come gli allenatori di calcio che non sanno vincere. Sfilano uno dopo l’altro: promosso, cacciato, promosso, cacciato. Alla fine, dopo mesi, gli si miscela davanti sempre la stessa faccia gonfia, rubizza, ottusa, divisa verde divisa blu divisa grigia medaglie… Stretta di mano… Litania: vinceremo cambieremo tattica avanzeremo. Promettono, i bugiardi. Liquidato avanti un altro. E ancora le stesse trippe debordanti che confessano, da sole, un ventennio di corruzioni allegre e impunite, di sbornie quelle sì colossali, i generali da parata. E questo crapulone, rimugina lo zar, sarebbe «il macellaio della Siria», e quell’altro «la folgore cecena»… E che dire del supposto «Kutuzov della Sirte»? Che buffonata la gloria! Giullari di corte, boiari della potenza immaginaria, un bluff costruito per la piazza rossa e i suoi riti di guerrafondai ecumenici, bandiere bolsceviche e croci zariste, passo marziale e marcette. Eppure proprio qualcuno di costoro potrebbe trovare una briciola di coraggio per tentare il golpe, che sarebbe l’unica offensiva riuscita della carriera. Una miserabile, cortigianesca piccola rivoluzione di ottobre.

Fino a febbraio ha dato libero corso alla propria volontà di potenza, ha preteso di porsi al di sopra del bene e del male. Pensava, e questo è il vero nocciolo del dispotismo qualunque sia della sua ideologia, che gli uomini russi, ucraini, occidentali, tutti, possano essere fatti, modellati come sudditi obbedienti, materia che la macchina autoritaria sbriciola e insieme ne è l’ingranaggio. Si era ormai sganciato dall’ideologia. Il potere era caratterizzato da un cinico e spietato machiavellismo, fondato sulla sua brutale interpretazione della storia russa. Il suo motto era una domanda di Lenin che ha mille volte sillabato nella adolescenza sovietica di entusiasta pioniere: «Sarà nostro un mondo che non abbia sanguinato fino all’ultima goccia?». Il mondo sanguina, eccome: ma sono sconfitti.

Parate, celebrazioni, consegna di diplomi e patacche, lo sgobbo quotidiano che prima lo impiumava e oggi è solo grottesco, non gli danno più sostanza, lo stringono invece come quelle edere che sono ornamento vivo di un albero morto. Sa che il punto di non ritorno verrà quando si murerà nella sua sconfitta, se ne cingerà come un riparo; il letale diritto di non occuparsi più di nulla, di abbandonarsi, di essere a pezzi.

Ma questo momento non è ancora arrivato e Putin proprio ora è doppiamente letale. Molto più che prima, quando aveva una possibilità di vincere o di sopravvivere e ragionava politicamente. Ora incarna il tiranno che considera la propria vita come potrebbe farlo un tisico che sembra ancora pieno di forza ma è senza speranza: nell’insieme confuso dei suoi sentimenti, l’odio e la paura mettono un ordine selvaggio, brutale e prendono il carattere di un dovere. L’odio assume l’aspetto di un dovere. Semplicemente si vede davanti quel conto da regolare, gli arretrati di un debito. E l’arsenale che era fino a ieri solo un soprammobile della potenza diventa arma indispensabile per concludere almeno in modo apocalittico. O forse, perché no, ancora l’estrema uscita di sicurezza.

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