Il nodo politico: Meloni non può non costruire un nuovo centro destra

Antonio Polito Corriere della Sera 20  ottobre 2022
Una strada accidentata verso il prossimo governo
Questa specie di crisi attualmente in corso prima ancora che l’esecutivo si formi certifica che il vecchio centrodestra è morto da tempo, e il nuovo non è nato


Ciò che sta accadendo in queste ore, una specie di crisi di governo prima ancora che il governo si formi, certifica che il vecchio centrodestra è morto da tempo, e il nuovo non è nato. La «coalizione» è stata sepolta nelle urne sotto una valanga di voti per Giorgia Meloni; mentre gli altri due partner sommati non arrivano nemmeno al risultato del pur ammaccatissimo Pd.

Ogni lettura psicologica del comportamento che sta tenendo Berlusconi dice perciò solo una parte della verità. Non basta l’età, né le compagnie, né l’indole da scorpione che punge anche chi se lo sta portando sulle spalle al governo, né un residuo maschilista che lo spinge a contestare l’autorità esercitata da una giovane donna, che lui non a caso chiama con sprezzo «signora», e alla quale arriva a ricordare da dove viene il reddito del compagno; non basta tutto questo a spiegare perché, alla vigilia delle consultazioni, il Cavaliere se ne vada ancora in giro depositando trappole sulla strada della futura premier.

Influiscono, eccome, i tratti personali. Ma, come si diceva un tempo, il personale è politico. Politica è infatti la questione di fronte alla quale si trova ora Giorgia Meloni. Il Cavaliere non riesce ad accettare la morte del «suo» centrodestra. Lei deve dunque costruirne, forse perfino inventarne, uno nuovo, dando vita a una coalizione politica che oggi non c’è. E lo deve fare mentre mette su un governo. Se non le riesce, le sue speranze di durata ed efficacia si affievoliranno notevolmente. Con grave danno per l’Italia, che ha invece bisogno di un governo stabile e forte, e si è espressa nelle urne di conseguenza.

Da qui alla presentazione della lista dei ministri la leader del partito di maggioranza deve perciò risolvere due problemi. Il primo: non basta più che il suo governo sia «autorevole», come si era ripromessa di fare fin dall’inizio; ora l’asticella si è alzata, e deve dare anche prova di essere «affidabile». Perché Berlusconi, il capo del partito che esprimerà il ministro degli Esteri, si è appena dichiarato «il primo dei cinque veri amici» di Putin (chi saranno gli altri quattro? Lukashenko? Orbán? Khamenei?), considera Zelensky un poco di buono, e si rammarica che non sia riuscita l’«operazione speciale» concepita a Mosca per insediare con la forza a Kiev un «governo di persone per bene».

Così facendo il Cavaliere dissipa il capitale di credibilità europea che si era conquistato negli anni, diventando in Italia l’unico esponente del Partito Popolare. Posizione che avrebbe invece potuto dare a Forza Italia una grande rilevanza nel nuovo esecutivo, facendone un centro di gravità di fronte ad alleati che non hanno il suo pedigree internazionale.

A peggiorare le cose, non è affatto detto che anche Salvini, nel fondo del suo cuore, non la pensi come il Cavaliere. D’altra parte il neo-presidente leghista della Camera, Lorenzo Fontana, ha appena detto di considerare un «boomerang» le sanzioni che il suo Paese, insieme a tutta l’Europa, ha imposto alla Russia.

Alleanze internazionali a parte, vale la pena di ricordare ai leader della nuova maggioranza che la stabilità finanziaria, bene così prezioso in un Paese così indebitato, si garantisce anche con la credibilità politica (come abbiamo visto nei 20 mesi di Draghi: a proposito, grazie!). Se invece continuano a picconarla, aggravando i dubbi all’estero sulla nostra futura lealtà europea e atlantica, la stessa Meloni non potrebbe accettare il rischio di una crisi di sistema, che la travolgerebbe prima ancora di partire. Questo è un punto da «whatever it takes», da mantenere a qualsiasi prezzo. Anche al prezzo di non fare il governo come lei stessa ha detto ieri.

Il secondo problema che Meloni deve risolvere è affermare senza ombra di dubbio l’autorità che le deriva dalla Costituzione, una volta ottenuto l’incarico dal capo dello Stato. Nessun ministro le può essere imposto. Valeva per Licia Ronzulli, vale per Casellati alla Giustizia. Il potere di proporre i nomi a Mattarella spetta solo a lei, e solo al presidente spetta quello di nomina.

C’è poi una terza questione, che sembra impossibile affrontare di petto oggi senza correre il rischio di trasformarla in una mera operazione di palazzo. Giorgia Meloni avrà presto bisogno in Parlamento di una sponda moderata, se le convulsioni di Forza Italia trasformeranno quel gruppo in una nave corsara, sganciata sempre più dai valori originari e dedita all’abbordaggio del governo. Questa consapevolezza era già presente prima del voto, ma il precipitare della crisi del governo Draghi (forse non casuale) ne ha bloccato gli sviluppi politici. Però, nel medio periodo, la leader della maggioranza deve ragionare sulle sue forze parlamentari: al Senato il centrodestra ha solo 115 voti sulla carta, e la maggioranza è 104; e nelle commissioni il margine è ancora più labile. Basta una fronda ben organizzata per mandare giù il governo. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.

 

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