Il legame tra Putin e Berlusconi tra regali esibiti e affari nascosti

Goffredo Buccini Corriere della Sera 22 ottobre 2022
Berlusconi-Putin: la dacia, il cuore di cervo. Silvio e il caro «Volodya», quell’attrazione fatale
Il legame ventennale che unisce il Cavaliere Silvio Berlusconi con il leader russo Vladimir Putin

 

Come nelle favole, si narra a un certo punto addirittura di un cuore di cervo in dono. Tra Silvio e «Volodya», quei due. E insomma è una specie di attrazione fatale: mai spiegata appieno né dalla politica politicante né dagli affari segreti e presunti che pure insospettirono molto il Dipartimento di Stato americano al tempo di Hillary Clinton.

Del resto, per Berlusconi la via più breve tra due punti non è la retta ma il salto mortale: sicché era ineludibile la fascinazione per un maestro della specialità come Vladimir Putin, balzato via Kgb da una sgarrupata kommunalka di Leningrado ai fasti da satrapo del Cremlino. E per l’ex criminale di strada (parole di una delle sue vittime, l’oligarca Mikhail Khodorkovsky) doveva essere irresistibile la malia di un signore italico dalla «coreografia medicea» quale è il Cavaliere, non potendo coglierne il tratto da nouveau riche che tanto fa arricciare il naso ai democratici nostrani e ai loro intellettuali di complemento.

Il resto è razionalità o elogio della follia, dipende dai punti di vista. Nel nuovo eppure eterno putinismo di Berlusconi, fatto di scambi vodka-lambrusco e dolcissime parole, ci sono ragioni forse interne, regolamenti di conti in ciò che resta di Forza Italia: ad usum Ronzulli, per dire, perché Tajani intenda e magari inciampi sulla via della Farnesina.

Ma ci sono conseguenze esterne, assai gravi per il governo di Giorgia Meloni che verrà: Tass e Ria Novosti fanno già festa rilanciando le frasi al miele del nostro antico premier sul dittatore moscovita, «amante della pace», con tanti saluti a Zelensky, all’America e alla nostra postura internazionale dell’era di Mario Draghi. Imputare le esternazioni all’età è, oltre che un po’ canagliesco, pure improvvido, perché sempre Berlusconi ha straparlato, a sessanta come a ottantasei anni, sempre mirando però in ogni fuor d’opera a un bersaglio preciso, studiato.

Qui due sfere s’intersecano, come sempre è stato nelle sue relazioni, fatti suoi e fatti nostri, fino a diventare la stessa cosa. Galeotta fu Pratica di Mare, il trattato del 2002 che Silvio rivendica come una Yalta del nuovo millennio, avendo messo attorno a un tavolo un Bush Junior annichilito dall’11 settembre e un Putin ancora stordito dalla vertiginosa caduta della madre Russia a rango di mendicante: ciascuno vedeva nell’altro una scialuppa di salvataggio e il premier italiano si preoccupò di apparecchiarne il desco. Erano i tempi, oggi fantascientifici, in cui il Cavaliere immaginava una Russia nell’Unione europea, «la sua posizione naturale accanto alle democrazie occidentali» (sic): certo non potendo scrutare il buio nell’anima dell’amico Volodya che dall’infanzia portava con sé il ricordo di quel ratto di Leningrado il quale, sentendosi messo all’angolo, gli saltò al collo come una tigre.

Putin si è sempre sentito quel ratto, in fondo. E tuttavia l’incontro con Berlusconi ne ha a lungo ammansito la ferocia, è innegabile. Per amore o per soldi.
I due si sono scambiati per vent’anni così tanti ammiccamenti e regalini zuccherosi che, non fossero due maschi affetti da machismo conclamato, farebbero sollevare il sopracciglio al nostro nuovo presidente della Camera. E invece. Eccoli nella dacia di Valdaj assieme a uno che non passava per caso, l’ex cancelliere tedesco Schroeder, presidente pagato a peso d’oro del Consorzio North Stream: ad allietarli, le ragazze dell’Armia Putina, l’Armata di Putin, camicia bianca e slip, torta cioccolato e panna, roba che le Olgettine sarebbero apparse Orsoline. Eccoli a tracannare vino che a noi servirebbe un mutuo per annusarlo.

Silvio che dona a Volodya un piumone con la foto di loro due. Putin che ricambia con il lettone reso poi celebre da Patrizia D’Addario. Silvio che spiega urbi et orbi come Volodya sia «un dono del Signore alla Russia». E l’amico che lo difende quando in Italia montano gli scandali: «Fosse gay non lo toccherebbero, è sotto processo per invidia, perché vive con le donne…». Insomma, l’intesa è tale da far superare al nostro «Unto dal Signore» qualsiasi gelosia verso l’amato autocrate che annovera addirittura nella regione di Nizhny Novgorod una setta da cui è venerato quale reincarnazione di San Paolo.

Il dubbio che sotto tanta melassa ci sia ben altro balena nella testa della segretaria di Stato americana Hillary Clinton nel 2009, quando chiede ai suoi ambasciatori «quali investimenti hanno fatto i due che possano in qualche modo guidare le loro scelte politiche ed economiche». Agli atti c’è già lo strabiliante caso di un amico di Berlusconi esperto in acque minerali ma arrivato a un passo dall’intermediare affari miliardari col colosso energetico russo Gazprom nel 2005, il sospetto (mai provato) di affari comuni in Kazakistan, la sponda italiana nella spoliazione degli asset della Yukos, la compagnia di Khodorkovsky rivale di Gazprom.

Di certo quelli sono gli anni in cui la nostra dipendenza energetica da Mosca s’impenna. Conosciamo tramite Wikileaks i devastanti cable spediti nel 2010 a Washington dall’ambasciatore a Roma, Reginald Spogli: «La voglia del primo ministro Berlusconi di essere percepito come un importante giocatore europeo in politica estera» sta portando l’Italia a «sostenere gli sforzi russi di danneggiare la Nato (…). Il suo preponderante desiderio è rimanere nelle grazie di Putin e ha frequentemente dato voce a opinioni e dichiarazioni che gli sono state passate direttamente da Putin».

Parole gravi. Che prescindono tuttavia dall’italico genius loci, incomprensibile al candore degli americani: la machiavellica doppiezza, nostra unica speranza in questo pantano. Putin regalò il famoso cuore di cervo ancora grondante di sangue a Silvio, dopo averlo strappato dal petto della povera bestia uccisa in una partita di caccia a due, solo loro, senza scorta: «Per te, amico mio». Pare che il nostro eroe inorridito, al sentiero dopo, lo gettò non visto nel primo cespuglio. Alla fine, non si sa per conto di chi o di cosa, lui li frega sempre, o così si spera. Citofonare Gheddafi.

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