Governo Meloni, punti forti e deboli. Unica certezza, assenza di alternative

Antonio Polito Corriere della Sera 23 ottobre 2022
Governo Meloni, i 5 punti forti (e deboli) del nuovo esecutivo
Ce la farà o fallirà? Durerà o cadrà alla prima curva? Tutti si interrogano sul destino della premier: le ragioni dell’ottimismo e i motivi per temere il peggio


Il fattore TINA – Per 18 mesi non ci saranno alternative
Il maggior punto di forza del governo si chiama TINA: «There is no alternative», come nel motto di Margaret Thatcher. Dovesse infatti venire in mente a qualcuno di metterlo in crisi, almeno per i prossimi 18/20 mesi non esiste la possibilità di sostituirlo con un esecutivo tecnico o di larghe intese, secondo la prassi solita. Pd e M5S hanno appena giurato di non parteciparvi mai più. E comunque non potrebbe nascere senza e contro il partito di maggioranza relativa. Dunque Giorgia Meloni ha nelle sue mani un bazooka carico con cui minacciare reprobi e riottosi: può chiedere e ottenere la sanzione del voto anticipato.

Il fattore urne – La spinta della vittoria alle elezioni
Per la prima volta da undici anni, un leader che ha vinto le elezioni è diventato premier. Degli ultimi sei primi ministri, Meloni è addirittura l’unica parlamentare eletta insieme a Enrico Letta (Monti, Renzi, Conte, Draghi non lo erano). Perfino in un sistema come il nostro, in cui le maggioranze si fanno dopo le elezioni, l’investitura del voto popolare conta. Lo dimostra la rapidità record con cui è nato l’esecutivo subito dopo l’incarico. Alla gente questo piace, anche a chi non ha votato per la destra: l’idea che chi vince possa governare. Dopo anni di caos, bipolarismo e alternanza tornano ad avere un senso.

Il fattore D(onna) – Una rivoluzione, gli uomini messi in fuga
Il fattore D consegna al governo di Giorgia Meloni una dimensione storica: ha mandato in pezzi il soffitto di cristallo più resistente della storia della Repubblica (il prossimo è sul Colle). E lei ha subito fatto vedere quanto vale una donna, mettendo in riga due maschi alfa come Berlusconi e Salvini, che al Quirinale la guardavano «con quella faccia un po’ così quell’espressione un po’ così che abbiamo noi» uomini quando una donna ci prende il posto. Giorgia Meloni non sarà Sanna Marin, premier della Finlandia, non foss’altro perché è di destra; ma la sua è pur sempre una rivoluzione.

Il fattore D(raghi) – I predecessori e le castagne tolte dal fuoco
Qualche castagna dal fuoco il «transition team» del vecchio governo gliel’ha già tolta. Il tetto al costo del gas, per esempio. Draghi alla fine ha convinto l’Europa. E a dispetto di chi diceva che tanto il «price cap» non serve perché è il venditore che fa il prezzo, il prezzo è già sceso, e di molto. Naturalmente il peggio deve ancora venire: il primo trimestre del governo Meloni sarà anche il primo di recessione. Ma se l’ex sovranista avrà l’intelligenza di restare attaccata all’Europa, potrà governare meglio la tempesta. È probabile che Draghi e Cingolani restino disponibili per qualche consiglio in corso d’opera.

Il fattore nomi – I ministeri ribattezzati (su temi cruciali)
Nel cercare nomi nuovi per vecchi ministeri, la nuova premier ha forse esagerato. Però due grandi questioni epocali, a lungo rimosse dalla politica italiana, le ha colte: l’inverno demografico e l’indipendenza energetica. Per questo il ministero della Famiglia è diventato anche della Natalità. Ci vorranno soldi veri per sostenere politiche pubbliche efficaci; ma almeno ora c’è qualcuno che se ne occupa. La «Sicurezza energetica», comparsa a fianco dell’Ambiente, ha invece preso il posto della Transizione, tanto cara a Grillo: l’obiettivo è «primum vivere». Speriamo si cominci da Piombino.

L’incognita alleati – La coalizione è rissosa, senza equilibrio
Il punto debole del governo Meloni è la coalizione che lo sostiene. Non è solo rissosa, come si è visto durante le trattative; è inedita, una prima assoluta, un’incognita. Da che il centrodestra esiste in Italia, è andato al governo sempre e solo con Berlusconi alla guida. Quello di adesso è una «cosa» senza precedenti: guidata dalla componente più di destra, e squilibrata perché i Fratelli d’Italia hanno preso tre volte i voti degli altri due partner. Si aggiungano le convulsioni di Forza Italia, destinate a crescere man mano che la leadership di Berlusconi, come tutte le cose mortali, svanirà.

L’incognita ministri – La squadra non proprio di primo piano
Intendiamoci: poteva andare peggio. Se Meloni non avesse resistito a qualche diktat. Però la lista dei ministri non è proprio di primissimo piano. In gran parte si tratta di politici professionisti, come è normale che sia in un governo politico; ma il «niet» che numerosi esponenti delle élite hanno opposto alle profferte del premier ha avuto un suo peso. Lo prova il fatto che ben undici ministri su ventiquattro facevano già parte del governo Berlusconi di più di dieci anni fa. L’età media è alta, le donne poche. Unica vera sorpresa di rilievo, il ritorno di Alfredo Mantovano, come sottosegretario a Palazzo Chigi.

L’incognita Tesoro – L’Economia alla Lega, rischio conflitto
Non che Giancarlo Giorgetti non sia capace: lo è. Né che non abbia una spiccata indipendenza di pensiero: ce l’ha. Però è lecito chiedersi che cosa farà al ministero dell’Economia quando il capo del suo partito, Salvini, chiederà di mantenere gli onerosi impegni di spesa presi con le sue «constituency». Qui sta arrivando la recessione, ma il tempo del debito a basso costo è finito. Giorgetti terrà ferma la barra dell’avanzo primario? O dovrà allargare i cordoni? Si stanno creando le condizioni per il solito conflitto tra le ragioni del Tesoro e quelle della politica: solo che stavolta al Tesoro c’è un politico.

L’incognita opposizione – Grandi riforme, le minoranze non ci saranno
Sembra un paradosso, ma tra le cause di debolezza di un governo ci può essere anche la divisione dell’opposizione. Facciamo un esempio: la Grande Riforma promessa da Giorgia Meloni. Per istituire una Bicamerale con poteri reali serve innanzitutto una riforma dell’articolo 138 della Costituzione. Ma per farlo senza essere esposti a un referendum potenzialmente esplosivo ci vorrebbe l’adesione di almeno un pezzo della minoranza. Voi ce li vedete Pd e Cinque Stelle partecipare a un processo di revisione costituzionale con la destra? Ne avranno la forza e il coraggio Calenda e Renzi?

L’incognita Meridione -Il vuoto di idee per il Sud e i voti al Nord
La trovata di chiamare anche «del Mare», il ministero «del Sud», per quanto letterariamente evocativa, non nasconde un vuoto di idee su che fare nel e per il Mezzogiorno. Il governo è a trazione nordista, anche nella composizione. Meloni stessa ha puntato ai consensi del Nord, per vincere la gara interna con Salvini. Così che il voto del Sud è andato massicciamente all’opposizione (pentastellata), in cerca di protezione sociale (Reddito di cittadinanza). Con tutto il rispetto per Musumeci, che pure è un «ripescato», non sembra che il centrodestra sappia ancora come riconciliarsi con quella metà del Paese.

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